"Noi non molleremo mai". Queste parole, che in altri contesti sarebbero suonate oltremodo pacchiane, assumono invece un valore particolare se pronunciate da Sabrina Baracetti, madrina del Far East Film Festival, a chiusura della quindicesima edizione della manifestazione friulana. Non mollare, per il festival udinese, è ora più che mai una necessità; visto il carattere di finestra permanente sul cinema (e sulla cultura) asiatica, che ormai da un quindicennio la manifestazione, unica nel suo genere, ha assunto. E vista, inoltre, la valorizzazione del territorio che da anni il Far East opera, la sua importante integrazione con la vita culturale della città, il suo ruolo di crocevia tra Oriente e Occidente, con la presenza annuale a Udine di pubblico, giornalisti e addetti ai lavori provenienti da ogni parte del mondo: i pregi di questa manifestazione sono ormai noti, almeno per chi la segue, e la apprezza, da anni. Ma giova forse ribadirli, una volta di più, considerato che nelle istituzioni c'è stato (e c'è) chi la considera sacrificabile, superflua. Ma, al di là delle dichiarazioni di intenti, il Far East e i suoi animatori del Centro Espressioni Cinematografiche hanno dimostrato davvero di non mollare: così, in un'edizione ancor più falcidiata dai tagli di budget, hanno portato sullo schermo una selezione di tutto rispetto, numericamente più consistente di quella dello scorso anno, qualitativamente importante e rappresentativa di ciò che il sud-est asiatico ha offerto negli ultimi dodici mesi.
Certo, i tagli non sono stati indolore, e a risentirne è stata soprattutto la parte "storica" del Far East, quella che negli ultimi anni aveva dedicato focus e retrospettive ad autori e tendenze del cinema orientale. Con la seconda sede del Visionario recuperata solo in piccola parte, quest'anno abbiamo comunque potuto godere di un mini-focus su quel King Hu che è stato tra i più importanti autori del cinema hongkonghese: se pure gli splendidi A Touch of Zen - La fanciulla cavaliere errante e Pioggia opportuna sulla montagna vuota erano titoli noti agli appassionati (grazie ai passaggi notturni su Fuori Orario), rivederli su grande schermo è stata un'indubbia fonte di gioia. Così come importante, e preziosa, si è rivelata la proiezione al Visionario di Demons, fantastica metafora sociale sulla crescita, in omaggio a Mario O'Hara, maestro del cinema filippino scomparso lo scorso anno.Altra scelta obbligata, ma (almeno per chi scrive) praticamente indolore, è stata quella di sostituire i sottotitoli elettronici in italiano alla traduzione simultanea con cuffie: si è registrato, sì, qualche raro problema di sincronizzazione, ma complessivamente riteniamo che questa opzione risulti preferibile per quegli spettatori che, per pigrizia o scarsa conoscenza della lingua, non volessero leggere i sottotitoli in inglese. Un rilievo, vero, che invece ci sentiamo di fare, riguarda la presenza di copie di scarsa qualità di alcuni titoli, specie ora che il digitale ha completamente sostituito la pellicola: parliamo, nello specifico, del sudcoreano The Thieves (la cui proiezione ha anche risentito di un notevole ritardo) e del giapponese Rurouni Kenshin, tra i titoli più attesi della selezione. Problemi limitati, che non inficiano certo la riuscita complessiva del festival, ma comunque da rilevare. Venendo ai titoli in sé, va evidenziata la consistenza, numerica e qualitativa, della selezione sudcoreana: dodici titoli in tutto (gli stessi di quella giapponese) alcuni dei quali restano impressi indelebilmente nella memoria. Tra questi, il quasi insostenibile National Security di Chung Ji-young: descrizione di una pagina nerissima (e purtroppo semisconosciuta) della storia coreana recente, con le terribili torture subite dall'attivista Kim Jong-tae durante la dittatura militare. Il noir New World, diretto da Park Hoon-Jung, è invece un ritratto plumbeo quanto realistico della realtà malavitosa locale: uno sguardo radicale e antropologico, quello portato dal film, ma non per questo meno avvincente per il pubblico. Pubblico che viene blandito, più esplicitamente, da blockbuster come l'action spionistico The Berlin File, di Ryoo Seung-wan, e il simil-Twilight A Werewolf Boy: prodotti, comunque, entrambi dignitosi nei rispettivi generi. Più sostanza troviamo nel dramma Juvenile Offender (di Kang Yi-kwan), storia toccante, quasi neorealista, di un ribelle senza causa e del suo rapporto con una madre altrettanto sbandata; nonché nell'atipica commedia sentimentale The Winter of the Year Was Warm, delicata storia di un amore "suggerito", diretta da David Cho. Nell'ambito di un genere, come la commedia, che rappresenta da sempre un punto di forza per la produzione della Corea del Sud, va segnalato anche il divertente All about my Wife di Min Kyu-dong, nonché il sorprendente, ultra-pop How To Use Guys With Secret Tips, diretto da Lee Won Suk e a sorpresa insignito del premio del pubblico, il Gelso d'Oro. Passando a parlare della cinematografia che fu originariamente il cuore della selezione del Far East, quella di Hong Kong, bisogna rilevare una forte presenza di produzioni che, anche laddove non si avvalgono di capitali cinesi, vengono comunque pensate nella preminente ottica della distribuzione mainland: i più o meno fantasiosi affreschi storici, sotto forma di film d'azione, di titoli come The Guillotines di Andrew Lau e Saving General Yang di Ronny Yu, sono perfettamente esemplificativi di questa tendenza. Tendenza che, negli esempi citati, porta con sé anche, va detto, una buona dose di retorica nazionalista, pedaggio da pagare alla penetrazione nel continente. Tuttavia, un titolo come Ip Man - The Final Fight di Herman Yau, riuscito biopic dedicato al celebre mentore di Bruce Lee (in quasi contemporanea con l'atteso The Grandmaster di Wong Kar-Wai) mostra che il colore, diremmo persino l'orgoglio locale, da parte dei cineasti storici della ex colonia, è tutt'altro che spento. Stesso discorso, più in piccolo, può essere fatto anche per l'action movie Cold War, dignitoso blockbuster dal cast infarcito di star, eppure realizzato seguendo gli stilemi dell'attuale cinematografia hongkonghese; oltre che per le commedie My Sassy Hubby e The Way We Dance, entrambe tese a valorizzare, oltre a storie dal sapore locale e a rimandi al cinema di Hong Kong dei decenni passati, le location della città come parte integrante della narrazione. La selezione della Cina continentale ha offerto i suoi titoli migliori in Beijing Flickers di Zhang Yuan e The Last Supper di Lu Chuan: da una parte il nuovo film un cineasta navigato, appartenente alla Sesta Generazione, che fa uno spaccato, lirico e rigoroso insieme, di una gioventù pechinese priva di punti di riferimento; dall'altra un affresco storico, altrettanto rigoroso, di un periodo chiave della storia cinese, shakespeariano nei temi, epico ma volutamente (e sorprendentemente) anti-retorico nella narrazione; da un giovane regista che già nel suo City of Life and Death si era mostrato a suo agio con i temi della storia. C'è spazio, in un mercato cinematografico in continua evoluzione (seppur ancora condizionato dalle maglie della censura) anche per il simil-western An Inaccurate Memoir (con un occhio allo spaghetti western che fu), per lo sghembo ma non disprezzabile noir Lethal Hostage, per il sontuoso wuxia digitale (originariamente girato in 3D) di Painted Skin: The Resurrection, nonché per l'horror ecologico, pur depotenziato e ridotto a fiaba con spunti da commedia, di Million Dollar Crocodile. La commedia è ben rappresentata dal romantico, lieve, Finding Mr. Right di Xue Xiao Lu, ma soprattutto dal road movie Lost in Thailand di Xu Zheng: un prodotto che, pur nella sua convenzionalità ed esilità narrativa, si è rivelato un successo strepitoso al botteghino cinese, risultandone il maggior incasso di sempre e imponendo, così, una seria riflessione sulle modificazioni nel gusto degli spettatori mainland. Il Giappone ha portato a Udine alcuni interessanti "ritorni", sia di nomi navigati (e molto amati, non solo dagli spettatori del Far East) sia di altri più giovani ma già apprezzati da un consistente zoccolo duro di appassionati: tra i primi, non si può non citare Hideo Nakata, che con il suo The Complex ha intelligentemente rivisitato il J-Horror, trasformandolo in qualcosa di più complesso e tematicamente stimolante; tra i secondi, si segnala Satoshi Miki, che, pur mantenendo intatta la sua fantasia e il suo gusto per le storie grottesche, non è riuscito ad amalgamare il tutto in una narrazione convincente nel suo It's Me, It's Me (comunque molto apprezzato dal pubblico). Il gusto pop e dissacrante di certa cinematografia nipponica si è espresso appieno in un titolo come Maruyama, The Middle Schooler, strambo "romanzo di formazione" su un adolescente che si impegna per praticarsi da solo una fellatio, guardando a tale traguardo come a un simbolico raggiungimento della maturità. Più esile si è rivelata la punk comedy G'mor Evian!, che offre un ritratto fin troppo caricaturale e sopra le righe dello stesso mondo che vuole rappresentare; mentre Key of Life di Kenji Uchida si segnala come una commedia in noir che riesce a gestire al meglio, e in modo piuttosto originale, un tema risaputo come quello dello scambio di persona. C'è spazio, tra i titoli selezionati, anche per una commedia sentimentale più classica, ma molto delicata e dal sapore vagamente linklateriano, come I Have To Buy New Shoes di Eriko Kitagawa; nonché per due blockbuster quali il chanbara Rurouni Kenshin (tratto da un popolare manga) e lo storico The Floating Castle. Ma la vera sorpresa della selezione, piazzata nell'ultima giornata, in una improba collocazione pomeridiana, è stata rappresentata da A Story of Yonosuke, diretto da quello Shûichi Okita che già si fece apprezzare, l'anno scorso, col suo The Woodsman and the Rain: un coming of age toccante, raccontato come una commedia, con un'atmosfera dolce e malinconica e un protagonista di notevole intensità, il giovane Kengo Kora. Certamente tra i titoli migliori di questa edizione, ingiustamente (a nostro avviso) tornato a casa senza alcun premio. Tra i restanti paesi rappresentati al festival, si segnala Taiwan, con una selezione di cinque titoli tra cui spiccano i toccanti Touch of the Light (dramma sentimentale premiato col Black Dragon Audience Award) e Forever Love, commosso atto d'amore per il cinema taiwanese (recitato nella lingua locale) degli anni '50 e '60; le Filippine, con il sempiterno Erik Matti e il suo divertissment horror Tiktik: The Aswang Chronicles, ma anche il durissimo, "sporco" thriller Mariposa in the Cage of the Night di Richard Somes; e la Tailandia, rappresentatissima nelle proiezioni di mezzanotte, con gli horror 9-9-81 e Long Weekend, e soprattutto col sorprendente thriller Countdown di Nattawut Poonpiriya, che ha conseguito un inaspettato secondo posto nel podio dell'Audience Award. Un discorso a parte merita l'esperimento di Comrade Kim Goes Flying, coproduzione tra Belgio, Gran Bretagna e Corea del Nord: al di là delle considerazioni sulla sua qualità (forzatamente influenzata dal suo contesto produttivo) il film rappresenta un precedente importante, un'apertura del regime nordcoreano verso l'Occidente da non sottovalutare; sia per il modo in cui la sua produzione è maturata, sia per la sua presentazione in un festival internazionale. Per considerazioni più approfondite sulla pellicola voluta da Nicholas Bonner, e sulla sua proiezione nella cornice del Teatro Nuovo, rimandiamo alla nostra recensione. Come si sarà intuito, almeno per quei lettori che avranno avuto la pazienza di seguirci fin qui, il bilancio di questa quindicesima edizione del Far East non può che considerarsi positivo. Nonostante la già citata, drastica riduzione del budget, gli organizzatori hanno messo insieme un programma che, per varietà di proposte e qualità, non ha nulla da invidiare a quello degli anni precedenti. Un programma che soprattutto, ancora una volta, offre uno sguardo a 360 gradi su una realtà sfaccettata e complessa come quella del cinema asiatico, proponendone alcuni dei titoli più rappresentativi: frutto di un lavoro di selezione, come sempre, attento ed appassionato. Qualche appunto, oltre a quello, già citato, sulla qualità di alcune (poche) proiezioni, può essere mosso alla collocazione di determinate pellicole: a nostro avviso, opere come il taiwanese Forever Love e lo splendido A Story of Yonosuke avrebbero meritato una visibilità maggiore, che poteva essere offerta solo da una collocazione in fascia serale. Il discorso è tanto più valido se si pensa che di tale collocazione hanno giovato, invece, pellicole più trascurabili, di facile consumo e scarso spessore, come la commedia Girls for Keeps. Si tratta, comunque, di considerazioni in parte personali, variabili a seconda dei gusti e delle sensibilità; così come quelle che ogni anno, inevitabilmente, scaturiscono dai risultati della premiazione: la volontà di preservare il carattere popolare della manifestazione, con tre premi assegnati unicamente dal pubblico, porta inevitabilmente a un alto grado di aleatorietà (nonché di necessaria "fiducia" in chi vota) del risultato. Da parte nostra, comunque, non possiamo che esprimere ancora una volta un sostegno convinto per una manifestazione come il Far East: giova ripetere che, pur nelle sempre presenti criticità, e in quel senso di precarietà che ormai avvolge tutte le manifestazioni di settore in Italia, il risultato raggiunto dagli organizzatori del Centro Espressioni Cinematografiche è stato, anche quest'anno, davvero ragguardevole. Il pubblico, ancora una volta (le distinzioni tra spettatori, addetti ai lavori e giornalisti sono, in questo caso, abbastanza superflue) sembra aver apprezzato, tributando alla manifestazione un alto numero di presenze (specie nelle ultime giornate) e di accrediti. Il recente avvicendamento politico alla guida della Regione Friuli farà bene al festival friulano? L'auspicio in positivo, da parte nostra, è abbastanza ovvio. I risultati saranno da verificare.