Sabato 22 aprile 2006, dopo la visione de La chiave di Tinto Brass (peraltro in una versione leggermente tagliata), il famoso regista ha tenuto la seconda lezione di cinema di questa edizione 2006 di Europacinema.
Ma chi si aspettava uno dei soliti gesti provocatori per cui Brass è conosciuto è rimasto a bocca asciutta, di fronte ad una persona con una grande cultura cinematografica e con idee niente affatto scontate.
La versione de La chiave che è stata proiettata oggi è una versione DVD, che si trova in commercio e risulta mutilata di almeno 12 minuti. Purtroppo non si è riusciti a trovare l'edizione integrale. Sembra che non esista... Tinto Brass: Si, esiste. Ma purtroppo solo in VHS. La versione del DVD è quella dell'edizione RAI, già mutilata all'inizio. Sarebbe bene però che il cinema fosse guardato con più rispetto.
Ci può parlare di Stefania Sandrelli e del suo rapporto con lei?
Do titolo di merito a Stefania per non avermi rinnegato, come tante altre con cui ho lavorato e di cui preferisco non dire il nome. Mi ricordo che feci una proiezione de La chiave per Stefania prima dell'uscita del film. Alla fine lei scappò. Mi preoccupai tantissimo, pensavo che avrebbe sconfessato il film. Invece poco dopo rilasciò un'intervista in cui diceva di essere molto fiera perché aveva dimostrato alle sue colleghe di poter recitare anche con il culo. E' una donna molto generosa e sicuramente per l'epoca fu molto coraggiosa. La lavorazione fu piacevolissima. Lei è una donna sensualissima. Mi capitava sul set di mimare con lei alcune scene prima di girare. Mi si scioglieva letteralmente fra le braccia. Ha dato un forte contributo per costruire il personaggio di Teresa.
Vorrei partire dalle sue prime esperienze, come aiuto alla regia. Cosa le hanno lasciato i registi con cui ha lavorato?
Moltissimo. Soprattutto mi ha lasciato molto il direttore della Cinemateque, in cui ho lavorato come archivista. Lui mi ha fatto amare passionalmente il cinema. Non faceva distinzioni fra film di serie A e film di serie B.
Cavalcanti era un ex avanguardista. Ho conosciuto anche Jean Renoir, che più che dalle idee era attratto dagli appetiti degli uomini. Grazie a lui sono sempre stato attratto più dal significante che dal significato. Io cerco linee, forme, colori. Uso spesso specchi rotondi nelle mie scene proprio perché così anche con i movimenti di macchina non deformano le linee. Joris Ivens mi ha insegnato la grammatica e la sintassi del montaggio. Io sono un grande montatore, giro un film per avere materiale da montare. Non ho una sala di montaggio, ho una cattedrale di montaggio! Per molti registi il montaggio è il momento in cui si scontano i peccati. Per me invece è il momento più importante.
Roberto Rossellini, con cui ho lavorato, lo ammiravo molto. Io dovevo montare per lui del materiale che aveva portato dall'India per fare delle produzioni televisive. Mi dava indicazioni e io la notte montavo il tutto.
Il suo primo film sembra ispirato dalla Nouvelle Vague.
C'era un movimento nell'aria, lontano dal "cinema di papà". L'ho portato in Italia e qui ero un po' in anticipo. Lo portati a Venezia. Alcuni pensarono che non fosse cinema "serio", ma altri critici videro invece l'innovazione.
In quegli stessi anni uscirono anche le opere prime di Bertolucci e Bellocchio. Come si pone nei loro confronti?
Sono opere bellissime, ma forse all'epoca mi affascinava più Carmelo Bene, per la sua ricerca del linguaggio.
Perché dopo film politici, decise di dedicarsi ai film di genere?
Ecco la differenza fra film A.C. e film D.C. (dopo La Chiave). Secondo me non c'è una grande differenza fra i film per così dire impegnati e quelli che ho fatto dopo. Noi lavoravamo in un mondo "nuovo". Ma mi sono ben presto accorto che però questi sogni di partenza finivano sempre in un bagno di sangue, con la sostituzione di un potere con un altro potere. Mi sono accorto che se non si cambiano gli uomini sarà sempre così. Nello stampo del culo della Sandrelli ho trovato lo stampo di quel paese utopico, dell'uomo nuovo. All'inizio volevo utilizzare il cinema come un mitra. Ma oggi mi accontento di emozionare. Il cinema non cambia la realtà. Ho quindi cercato di rendere il mondo più abitabile come le forme delle mie attrici.
Secondo lei la rivoluzione sessuale ha contribuito a cambiare la società nel suo rapporto con il sesso?
Aveva contribuito, ora siamo tornati indietro a passi da gigante.
Come si pone nei confronti del cinema di Luis Buñuel?
Come un epigono. Io volevo lavorare con lui, ma non ci sono mai riuscito. Da lui ho succhiato parecchio.
E cosa ci dice di Salon Kitty?
Salon Kitty e Io, Caligola dovevano far parte di una trilogia, con Borgia, sul potere. Volevo analizzare questo moloch, il potere, con i suoi gangli che arrivano ovunque. In Caligola però quello che era un film sull'orgia del potere è diventato un film sul potere dell'orgia. Salon Kitty invece esalta l'aspetto della violenza sessuale, come sopraffazione sugli altri. Per Caligola il punto era vedere un anarchico al potere. Anche lui era divorato da questo moloch. Ho girato per sei mesi, poi me l'hanno tolto di mano perché non era l'immagine da Penthouse che il produttore voleva. Ho fatto una causa e la sentenza ha fatto giurisprudenza: c'è un diritto d'autore anche sul girato.
E il suo rapporto con Gore Vidal?
Era molto disponibile (ha riscritto più volte la sceneggiatura di Caligola), ma con un ego enorme. Voleva venire sempre sul set per controllare e io detti ordine che non lo facessero entrare.
E arriviamo a La Chiave. Come è nata l'idea di adattare questo romanzo?
Appena letto, ho contattato l'autore e ho preso un'opzione per un film. Quando però questa opzione è scaduta, il film l'ha fatto un altro regista. Ho dovuto aspettare che scadessero i diritti di questo film. Alla fine ho cercato un accordo con l'autore. Ho dovuto acquistare i diritti del libro. Ma nessuno voleva finanziarmi. Alla fine ho dovuto inventare che l'autore aveva vinto il Premio Nobel per la letteratura. Tanto nessuno sa niente nell'ambiente, se la sono bevuta! Ho anticipato la storia a prima della guerra. Mi interessava raccontare una storia di anormalità, con il marito che spinge la moglie fra le braccia di un altro, sotto un sistema politico che era l'ordine per definizione.
La Sandrelli ha accettato subito?
In quel momento non era molto ricercata, ma a me piaceva molto. L'ho trovata giusta. E infatti La Chiave l'ha rilanciata nella sua carriera. Frank Finley, che interpretava Nino, era un uomo religiosissimo. Ha scelto di farlo proprio perché era un personaggio lontanissimo dalla sua vera personalità. Per La Chiave è stata la prima volta che ho deciso di stare io in macchina, perché le attrici hanno una generosità maggiore se sanno che sono seguite strettamente dall'occhio del regista. C'era una sorta di transfert fra noi. Da allora ho preferito continuare a stare io in macchina.
Parliamo di Yankee.
Per Yankee ho avuto dei problemi. Volevo fare un film a ideogrammi. Avevo cominciato il montaggio solo con i dettagli, uno sperone, la sella del cavallo, ecc. Quando il produttore l'ha visto, mi ha cacciato dalla moviola. Volevo fare un film di genere, utilizzando però un linguaggio sperimentale.
Ieri Bellocchio ha detto che i nuovi autori non rischiano più. Lei che ne pensa?
Non penso che sia solo questione di coraggio. E' cambiato il sistema. Una volta un film era fatto con le cambiali. Per ripagarle potevi solo fare un altro film. Oggi il sistema funziona solo con le raccomandazioni. Ieri i produttori erano avventurieri, oggi sono passacarte, influenzati dal modello televisivo, per cui molti temi non vengono accettati.
Cosa ne pensa dei critici che non apprezzano il cosiddetto cinema di genere?
E' fatica sprecata. Quando leggo un pregiudizio, è inutile sforzarsi per fargli cambiare idea, non è più un problema di ricerca stilistica. Ci ho messo una lapide sopra ormai.