Recensione Transporter: extreme (2005)

La Factory Besson prosegue imperterrita nel produrre titoli dalla caratterizzazione post-cinema per modalità narrativa ed intrattenitive, come a voler decretare una prematura fine del racconto per immagini tradizionali.

Estremo coattismo alla francese

Frank Martin è tornato! Come chi è Frank Martin, ragazzi. Parliamo dell'indistruttibile ex agente delle forze speciali, ora autista zelante, interpretato dal divertente Jason Statham (ormai ufficialmente balzato davanti a Vin Diesel come attore più coatto del globo terrestre). La sua nuova tranquilla vita viene turbata dal rapimento del suo piccolo pupillo Jack Billings ad opera di Gianni , il genio del male più improbabile che ci sia per il pubblico italiano (ebbe si parliamo di Alessandro Gassman) Vista l'astuzia e la cattiveria di Gianni e dei suoi compari - in primis della sua conturbante assistente dallo sparo facile - (Kate Nauta) lo schivo Frank dovrà veramente sudare le tanto amate sette camice per riportare dai suoi genitori (un Matthew Modine imbarazzante e la mammina un po' ninfomane Amber Valletta) il bravo bambino, sano e salvo.

La Factory Besson prosegue imperterrita nel produrre titoli dalla caratterizzazione post-cinema per modalità narrativa ed intrattenitive, come a voler decretare una prematura fine del racconto per immagini tradizionali. Che sia lecito o no, sono i risultati a non lasciare il segno. Come il precedente The Transporter, questo secondo episodio punta ancora tutto sull'azione più parossistica, con il chiaro intento di creare un fumettone disimpegnato e divertente, (e in alcuni tratti l'obiettivo è anche centrato, non è questo in discussione) che ha come innegabile punto di riferimento il vecchio cinema di arti marziali di Hong Kong (è questo ad essere piuttosto in discussione, in relazione agli esiti qualitativi). Privo dell'artigianalità e delle trovate di un qualsiasi kung fu movie cantonese, Transporter: extreme, finisce per essere il solito giocattolone confusionario (possibile che sia ormai diventato praticamente impossibile vedere scene di azione con un montaggio meno inutilmente caotico?) dove l'ostentazione fracassona ha da subito la meglio sulla cura dei duelli e delle situazioni spettacolari.

Quanto detto, ad ennesima conferma che è inutile trapiantare in un altro contesto personalità come Corey Yuen (a cui fu affidata la regia del primo film e la direzione della seconda unità per il coordinamento delle coreografie e delle scene d'azione in questo nuovo capitolo) se il meccanismo produttivo e l'approccio al cinema è del tutto differente. Non a caso, il film è privo di un marchio registico forte e la direzione è affidata al fido bessoniano Louis Leterrier, che come nel precedente Danny the Dog vivacchia di mestiere in modo piuttosto anonimo, contribuendo nel bene e nel male ad un film non sgradevole ma troppo inconsistente anche all'interno del genere in cui si muove