Con un esordio folle e surreale come Essere John Malkovich, Spike Jonze si è presentato al grande pubblico ipotecando il ruolo di regista più originale del panorama indie. Gli anni sono passati, ma lui non ha mai cessato di stupire sfoderando progetti sempre curiosi, stravaganti e differenti. L'ultimo, il bellissimo Her, è tra le pellicole più amate di questa edizione del concorso romano. Il film, interpretato dall'incredibile Joaquin Phoenix, pone numerose domande sull'irrequietudine sentimentale e sulle difficoltà dei rapporti di coppia. Domanda a cui Jonze tenta di rispondere nel corso della gremita Cine Chat presentata da Studio Universal. Un incontro ricco e divertente, scandito da una serie di clip che raccolgono il meglio della produzione dell'affabile Jonze il quale, tra una riflessione cinematografica e l'altra, si diverte a spostare poltrone e prova in tutti i modi a far rimuovere il suo enorme primo piano proiettato alle sue spalle.
Essere John Malkovich è la dimostrazione di come la nostra epoca sia caratterizzata da un narcisismo esasperato. Questo tema si ripresenta anche in Her. E' un argomento che ti sta particolarmente caro?
Spike Jonze: Her parla di un uomo che si innamora di un sistema operativo capace di sviluppare una coscienza. La nostra relazione con la tecnologia oggi ha a che vedere con l'intimità. La tecnologia velocizza le nostre azioni e le nostre comunicazioni, ma al centro di tutto c'è sempre l'individuo.
L'intimità è stata creata prima di tutto sul set. Cercavamo di essere sei, massimo sette persone evitando di affollare il set così che gli attori così che si sentissero a loro agio.
Da dove viene Samantha, l'OS di Her?
Samantha è una mente agilissima, ma è nuova. Non ha paure. Non ha esperienza. Nel corso del film apprenderà le paure tipiche degli umani, ma è entusiasmante vederla crescere.
Tu chiedi ai tuoi attori di lavorare senza vanità. Penso a permance come quelle di John Cusack o a Nicolas Cage. Come li convinci?
Tutti gli attori vogliono scompare nei loro personaggi, perciò se gli chiedi qualcosa che sia necessario al ruolo te lo danno.
Hai mai incontrato resistenze da parte loro?
Quando sviluppo i film contatto gli interpreti molto prima. Leggiamo insieme il copione, a volte lo modifico in base alle loro reazioni. Nel caso di Her ho chiesto a Joaquin Phoenix di essere disponibile e lui mi ha dato tutto. Credo che lui sia stato sorpreso. L'ho convinto a vestirsi con colori sgargianti, pantaloni a vita alta, rendendolo un po' tenero e un buffo. All'inizio era sicuramente perplesso, ma poi ha capito la ragione di ciò.
La mia è una generazione cresciuta con la videocamera in mano. Io ne ho sempre posseduta una e me la portavo in giro per filmare le cose che succedevano. Per questo per me è stato un passaggio naturale, quando ho iniziato a lavorare, mescolare i linguaggi.
E' stato difficile passare dal videoclip al cinema? Come sei stato percepito nell'ambiente?
I registi di video hanno la reputazione di usare montaggi veloci, immagini sghembe e uno stile energetico, ma quando io ho girato il mio primo film mi sono concentrato soprattutto sui personaggi. Non avevo mai lavorato con attori perciò ero molto più interessato alla relazione con loro che agli altri aspetti del processo.
Parlando di video, in Her hai collaborato con gli Arcade Fire.
Gli Arcade Fire sono uno dei miei gruppi preferiti e in passato ho girato video dei loro concerti. Ci conosciamo bene e quando ho cominciato a pensare alla colonna sonora di Her ho immediatamente capito che dovevo convincerli a occuparsene. All'epoca loro stavano scrivendo l'ultimo disco mentre io preparavo il film. Credo che la score del film e il disco si siano influenzati reciprocamente.
Prima di tutto devo dire che quando lavoro con grandi artisti hanno tutti il senso del gioco, della sperimentazione. Hanno una forza creativa pazzesca. La metafora del bambino mi piace perché quando guardo i piccoli penso che sono nuovi, non conoscono le convenzioni sociali del mondo adulto ed è affascinante vedere come si comportano in libertà.
Insieme a Wes Anderson, Noah Baumbach e Sofia Coppola possiamo inserirti in un ideale gruppo di artisti che hanno rinnovato la scena cinematografica. Ti riconosci in questo contesto?
Siamo coetanei e quindi, vedendo le cose che abbiamo fatto, bene o male ci siamo influenzati, ci siamo scambiati consigli e pareri. Io mi sento fortunato ad aver potuto imparare da questi registi.
Nei titoli di coda di Her, tra i vari ringraziamenti c'è James Gandolfini. Quale è il motivo?
James doppia uno dei personaggi di Nel paese delle creature selvagge. Il suo lavoro mi ha ispirato e non volevo dimenticarlo.
Ti è mai capitato di avere la sensazione di perdere il controllo creativo sul set?
Tutto quello che facciamo è pianificato solo in parte. Si spera che succedano cose che non avevi programmato, ma che hanno una loro magia. Occorre saper sfruttare l'attimo. Se però la svolta è negativa, è bene prendersi una pausa e cercare di ridimensionare il problema. E' come litigare con qualcuno. La cosa migliore è aspettare e poi tornare a parlarsi.
Che consiglio daresti a chi vuole fare il tuo mestiere?
Io tendo a non dare consigli perché poi se le cose vanno male la responsabilità è mia. Posso dire che non esiste un unico modo di fare le cose. Io sono stato molto fortunato perché ho incontrato persone da cui ho imparato molto e con cui ho collaborato e collaboro tutt'ora.
Charlie è lo sceneggiatore che preferisco. Mi affascina sempre enormemente. Quando mi viene un'idea o scrivo qualcosa la prima persona da cui vado è lui.
Per David Lynch le idee nascono con lo stesso metodo di quando si pesca. Una per volta. Tu quando lavori sei tranquilo e rilassato o perdi il controllo?
Entrambe le cose. A volte sono rilassato, a volte un po' maniacale. Sedersi e scrivere è il momento più drammatico perché non ti viene niente in mente. Le idee vengono nei momenti più inaspettati. Non sai mai quando accadrà. Io sono un po' impaziente, ma per lo meno ho smesso di mangiarmi le unghie.