Elogio dell'incomunicabilità
Un titolo essenziale e asciutto, Il prossimo tuo, ripreso per forma e costrutto dalle sacre scritture. Tanto intenso e profondo è il senso e il significato della ricerca portata avanti dalla regista italo-finlandese Anne Riitta Ciccone, già autrice de Le sciamane e L'amore di Marja.
L'autrice costruisce un film complesso, formato da tre filoni narrativi principali che si sfiorano appena tra di loro, rimanendo connessi quasi esclusivamente per il tema attorno al quale ruotano. La pellicola appare come un "documentario" dell'animo umano. Al centro l'incomunicabilità, la problematica dello scambio di informazioni, sensazioni, sentimenti, enucleata a qualunque livello.
Si tratta di quella chiusura al mondo, ai suoi dispiaceri come anche ai suoi piaceri, di una donna che ha subito violenza, di un'artista che ha assistito al suicidio della madre. Si passa per le timide aperture ad una realtà che non si sente più propria da parte di un anziano che tenta in tutti i modi di coinvolgere la nuova vicina nel proprio microcosmo, a quelle di un giovane ed affascinante imprenditore nei confronti di una donna chiusa, resa spigolosa dal carattere e dalla vita. Conosciamo un padre segnato nell'anima da un dramma profondissimo, apparentemente senza possibilità di redenzione, che si appende maldestramente e con affanno all'amore dei figli e di una nuova musa per ritornare a respirare.
Ma si toccano anche le corde dell'incomunicabilità sociale e razziale: una bambina di origini indiane senza amici, una famiglia presa di mira da un becero razzismo, il tentativo di emergere come un io indipendente tarpato dalla propria comunità di connazionali.
Un film complesso e semplice ad un tempo quello della Ciccone. Complesso perchè fa intravedere mille sfaccettature di un fenomeno psicologico, sociale e culturale che, nelle sue declinazioni, è quasi inafferrabile. Semplice perchè sfiora il tautologico, ritornando ogni volta lì da dove era partito, ribadendo e ricadendo il turbine di incomprensione e di diffidenza del quale è preda l'uomo contemporaneo.
Tra Italia, Francia e Finlandia, l'unico filone di narrazione veramente compiuto, garbato e discreto appare quest'ultimo. Negli altri due, soprattutto nel primo, il rischio di cadere in banalità, nonostante tutti gli sforzi compiuti, è veramente alto.
Il richiamo alla polizia che controlla gli immigrati alla lunga diventa macchiettistico, così come per lo meno edulcorata è il reiterarsi della paura di attentati lungo il corso di almeno tre o quattro sequenze.
Una regia virtuosistica nel suo tentativo di rimanere semplice, un uso disturbante e insieme unificante delle musiche, e una buona fotografia completano un quadro all'interno del quale si muovono una Maya Sansa che, con il suo stile minimalista e iperrealista, può essere amata come odiata, e una Diane Fleri che dà ulteriore conferma di essere una delle giovani attrici più interessanti nel panorama italiano contemporaneo, in attesa di vederla finalmente in un ruolo da protagonista sul grande schermo.
Il finale per certi versi consolatorio e riappacificante fa da buon corollario alla didascalia conclusiva, tratta da La questione della tecnica di Heidegger, che a sua volta riprende un verso di Holderlin: "Là dove c'è pericolo cresce anche ciò che salva".