Il font rosa shocking del titolo e degli occhiali nel poster di El Conde (qui la nostra recensione) dà in solitaria la misura del Pinochet secondo Pablo Larrain. Lo descrive come "un magnaccia nei panni di un mafioso da repubblica delle banane", ridicolo, sfrontato, amante dell'ostentazione. Nessuna indulgenza per chi indulgente non è stato. Quella dell'autore cileno è satira nerissima e in quanto tale è sferzante, crudele e drammaticamente onesta. Romanzata attraverso il genere, certo, ma addirittura pronta a redigere nella narrazione un'intera lista dei crimini imputati a Pinochet e famiglia, senza esclusione di colpi. Nella realtà, la morte ha sottratto il generale alla giustizia, così il cinema tenta almeno di vendicarsi, parodiandone la figura nella chiave che più di altre si addice a un dittatore: l'orrore.
E di sangue in effetti ne ha versato, Pinochet, ma Larrain sceglie di farglielo bere anche se amaro, quello plebeo che "si attacca per settimane alle labbra e al palato", un bouquet deludente che serve solo a saziare. Quello europeo, invece, è raffinato: distillato dalle vene dei possenti guerrieri vichinghi, invecchiato nella nobiltà francese e britannica, pregiato, da degustare con piacere. Ma i vecchi tempi sono andati e a 250 anni, stanco e disilluso da quello stesso irriconoscente paese che aveva contribuito a salvare dai bolscevichi, Pinochet vampiro vuole morire. Di nuovo. Questa volta veramente. Ma un dittatore, dopotutto, può davvero meritare la morte?
[ATTENZIONE, SPOILER A SEGUIRE]
L'amore muore prima del corpo
È attraverso gli oggetti che il suo Pinochet conserva e colleziona che Larrain lo introduce su schermo. Quadri, libri e busti di Napoleone ne danno lettura megalomane, mentre la VHS dei film di Stefano Corbucci, Ronny Liu, Charlie Chaplin, Stanley Kubrick o Fritz Lang - ma c'è anche Alf - rivelano i suoi gusti insieme popolari ma d'autore, perfetti per un magnaccia con manie aristocratiche. L'autore gli dà persino natali francesi, ufficiale al servizio di Luigi XVI, già vampiro e assetato di potere. Quello per la nobiltà è un culto che nemmeno la ghigliottina della Rivoluzione riesce a spegnere. È anzi proprio la soppressione delle rivoluzioni e la sovversione dei popoli che il giovane Pinochet vuole combattere, finché decide di voler essere anche lui re. Larrain impartisce al dittatore la lezione dell'aristocrazia francese per dare un esempio: l'oppressione non perisce, si rinnova. E se immortale è questa sorta di energia oscura, allora immortale deve essere il suo veicolo. Un vampiro, appunto, che non rispetta i dettami dell'horror cinematografico e letterario (invecchia, passeggia al sole, mangia ciò che vuole) ma quelli dell'orrore concreto, bevendo letteralmente il sangue dei cittadini cileni e dissanguando metaforicamente le casse dello stato a suo vantaggio. Accetta di essere un assassino in quanto creatura della notte e soldato, ma ladro no, mai: "È ingiurioso, l'ho fatto per il mio paese". La paura del comunismo, dei sindacati, delle insurrezioni: il Cile è stato protetto, quei soldi guadagnati. Pinochet è "una vittima del capitalismo" così come la sua imperdonabile dinastia di corrotti, viziosi e ipocriti, tutti pronti a rinnegare il proprio nome in pubblico quando ormai decaduti ma smielati in privato nel momento di un'eventuale eredità.
D'altronde il vecchio vuole morire, giusto? Da bravi figli si dà solo una mano. Persino la moglie Lucia, presentata come "una donna ancora più perversa e con meno scrupoli di lui", vorrebbe vederlo morto, comunque non prima di essere trasformata. Ha ragione la voce narrante: l'amore muore prima del corpo, soprattutto se si è vampiri. Eppure resta irrinunciabile anche per chi di cuori si nutre veramente, li frulla e li assapora; anche questa una forza rinnovabile ma con scadenza. Il Cile, ad esempio, non ha mai dedicato un busto a Pinochet. Che razza di amore è mai questo, per il loro affezionato dittatore? Forse Dio è l'unico essere a poterlo amare e perdonare incondizionatamente. O forse no. Anche la chiesa è una dittatura, giusto? Si predica ma non si agisce. Una "povera istituzione" che ha tanto bisogno di aiuto dove è sempre la repressione a generare i demoni peggiori, calcolatori, perversi e irresistibili. Stessa medaglia, faccia diversa. "Non uccidere, non rubare" ma si ruba e si uccide comunque, magari in modo differente, proprio come Pinochet. Si arriva a non distinguere il bene dal male nonostante i chiari peccati e gli indiscussi peccatori, e alla fine è tutto un grande gioco di leve e pretese dove è sempre chi sta sopra a succhiare il sangue di chi sta sotto, insensibile alle sofferenze dei più deboli.
Spencer e Jackie di Pablo Larraín: due donne di fronte alla Storia
Canini di ferro
Né sete di potere o fame di ricchezze definiscono moralmente un despota, dittatore o tiranno. È la mancanza d'empatia a farlo. L'incapacità di comprendere drammi e difficoltà dei meno agiati, di chi soffre, di chi chiede aiuto senza riceverlo. E approfittarsene comunque. Si allarga così lo spettro dei mostri istituzionali e umani che popolano il mondo, in particolar modo vampiri, esseri abietti, spesso celati dietro a volti magnifici e caratteri forti e carismatici. Si dice inoltre che dietro a un grande uomo ci sia sempre una grande donna, e questo vale tanto in positivo quanto in negativo. Lucia Hiriart è più crudele e spietata di Pinochet e Suor Carmencita è corrotta nell'anima. Entrambe amano e guidano a loro modo il generale e quest'ultimo a sua volta le ama entrambe. Ma non c'è affetto più grande di quello di una madre per il proprio figlio, e la geniale intuizione di Larrain è imparentare nella finzione Margaret Tatcher con Pinochet, unendo insensibilità e oscenità dei rispettivi e differenti governi in un legame di sangue più forte della morte, dell'amore, della dittatura, delle ricchezze. Prima ancora di scoprirsi, i due si comprendono, si rispettano, si accolgono, si aiutano (vedete sotto la Guerra delle Falkland).
La Lady di Ferro e Il Conte. Stessa tempra, orrori diversi. A unirli su tutto è il disprezzo per la plebe, per quel sangue così aspro, insignificante, indigesto. "Sud America", esclama lei con disprezzo. Il "rosso europeo" è su di un altro livello, non c'è nulla da fare. Anche se povero. E la politica conservatrice e monetarista tatcheriana quel sangue lo conosce molto bene, più di quanto Pinochet conosca quella cileno. La madre è stata molto più brava e celare la sua vera identità, anch'essa immortale, anch'essa di origini popolari ma con aspirazioni aristocratiche. La mela non cade molto lontano dall'albero, in fondo, anche quando avvelenata, e scoprendo questa magnifica e brillante genitrice, cullando la possibilità di una nuova vita insieme dopo tanti secoli di distanza, Pinochet capisce di non voler più morire nonostante tutto l'amore sia già scaduto, nuovamente ricco e giovane in un paese di macerie e povertà. Perché se l'oppressione si rinnova, anche l'oppressore lo fa.