Recensione Zucker! ...come diventare ebreo in 7 giorni (2004)

Dani Levy, regista e autore della sceneggiatura, non possiede la raffinatezza e lo stile di Woody Allen, ma firma una commedia degli equivoci godibile e senza pause, pervasa da un leggero e spudorato senso autoironico.

Ebreo per soldi e per amore

È già un piccolo caso, questo Alles auf Zucker!, da noi tradotto in Zucker! ...come diventare ebreo in 7 giorni, che ha conquistato il premio Ernst Lubitsch - voluto da Billy Wilder - per la migliore commedia dell'anno in Germania, e con il quale la produttrice Manuela Stehr spera di bissare il grande successo raccolto da Good Bye Lenin. E, in effetti, anche Zucker! parla del disorientamento post-caduta del Muro di Berlino, unito però a una verve comica e grottesca che si alimenta dai cliché e dagli stereotipi tradizionalmente attribuiti al mondo ebraico.

Jakob Zuckermann, per tutti Jaeckie Zucker (Henry Hubchen), è un ex cronista sportivo famoso ai tempi della DDR, degradato dopo la riunificazione a gestore di un club privato di nascosto dalla consorte Marlene (Hannelore Elsner), ma non dal timido figlio Thomas (Steffen Groth), professione bancario, che lo vuole far arrestare per i troppi debiti. Sì perché Jaeckie Zucker è un giocatore di biliardo incallito, nonché bugiardo impenitente, insomma quanto di più lontano esiste dall'idea di perfetto ebreo ortodosso, sbattuto fuori casa dalla moglie e cacciato dalla figlia Jana (Anja Franke), che ha una figlia ed è lesbica. A tale profilo corrisponde invece il fratello Samuel (Udo Samel), che nel 1961 aveva lasciato con la madre la Germania Est per andare nell'Ovest non perdonando mai a Jaeckie la scelta di abbracciare il comunismo e di voler rimanere da una parte della cortina di ferro. Dopo più di 40 anni di silenzio ostile, la morte della madre li fa gioco forza re-incontrare, poiché la donna ha dato disposizioni per essere seppellita a Berlino. Ma naturalmente c'è anche un'eredità da spartirsi, vincolata a rigide condizioni da rispettare: innanzitutto i sette giorni di "shivah", il lutto stretto degli ebrei, da vivere sotto la stretta sorveglianza del solerte rabbino e poi la riappacificazione definitiva dei due fratelli in nome della fede ebraica, che deve avvenire sotto gli occhi dell'intero parentado.

Ed è proprio dall'incontro tra i due gruppi familiari, quello di Jackie, che deve costruirsi in poche ore un'identità ebraica osservante, e quello di Samuel (composto dalla moglie Golda, dal figlio Joshua e dalla conturbante figlia Lilly), che pure si scoprirà nascondere scheletri nell'armadio, che prenderà quota il discorso filmico procedendo attraverso gag, battute esilaranti e situazioni al limite del paradossale. Anche perché Jaeckie deve trovare il modo di sfuggire dalla shivah per partecipare a un importantissimo torneo di biliardo, che può fare la sua fortuna e salvarlo dalla galera. Dani Levy, regista e autore della sceneggiatura, non possiede la raffinatezza e lo stile di Woody Allen, ma firma una commedia degli equivoci godibile e senza pause, un po' telefonata e prevedibile nel suo svolgimento teso alla riconciliazione familiare, ma pervasa da un leggero e spudorato senso autoironico.