"Mi sa che noi due non ce la facciamo proprio a stare fuori". È una dichiarazione di accettazione del proprio destino di outsider, salvo poi finire in Islanda per ricominciare fuori dalla "casa" che li ha cresciuti con le proprie regole, fuori da "lì dentro" dove pillole, letti malconci e rituali consolidati hanno finito per scandire le giornate, i mesi e poi gli anni. La storia di Salvatore (Francesco Colella) e Felice (Paolo Sassanelli), due amici un po' naif e fuori di testa, comincia da qui: una casa di igiene mentale in un paesino della Puglia, che la strana coppia lascerà all'improvviso per una rocambolesca fuga verso l'Olanda.
Due piccoli italiani è una storia semplice, neanche troppo originale: sulle figure di matti che non sono matti, di picchiatelli che rivelano una propria intima sorprendente lucidità, sulla follia come chiave d'accesso alla diversità e alla sua ricchezza, il cinema ci ha costruito un'intera narrazione. Anche questo film ne rispetta i canoni e adotta il canovaccio ricorrente della tragicomica epopea on the road, ma pur muovendosi entro i confini del conosciuto l'esordio alla regia di Paolo Sassanelli si lascia piacevolmente guardare. Un debutto che arriva alla soglia dei sessant'anni, trenta dei quali passati a fare l'attore di teatro, fiction (Un medico in famiglia) e cinema (LaCapaGira, Song 'e Napule) prima di decidere di passare dietro la macchina da presa nel 2009 con il corto Uerra.
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Il disagio mentale tra ironia, grazia e tenerezza
L'idea di Due piccoli italiani risale ad almeno trenta anni fa, ma le risorse per realizzarlo sono arrivate solo di recente e il film esce in sala nel quarantesimo anniversario della legge Basaglia. La malattia mentale è il motore dell'azione e Sassanelli ce la racconta appellandosi alla giusta misura, che sta tanto nella scrittura a sei mani (con Francesco Apice e Chiara Balestrazzi), quanto nelle precise scelte registiche e nelle interpretazioni che mai cedono il passo alla macchietta.
Il regista si ritaglia il ruolo di Felice e lo tratteggia con estremo pudore, gli dà vita con la grazia propria della tenerezza e con il piglio del matto che ha occhi per veder il mondo forse in maniera più chiara dei cosiddetti "normali". Francesco Colella è l'altra metà di questo bizzarro duetto; con Sassanelli, autore di una performance fisica basata su un delicatissimo gioco di aggiustamenti e sottrazioni, ci regala momenti in cui ironia e amarezza, realismo e poesia si combinano abilmente. Menzione speciale a Rian Gerritsen, la vivace Anke, energica e stravagante donna olandese che diventerà il terzo elemento di questa scapestrata famiglia on the road.
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La 'cura'
I toni della commedia si stemperano poi nella malinconica dimensione del viaggio che da fisico diventa metaforico: il lungo pellegrinaggio dalle campagne del Sud Italia puntellate di pale eoliche alle civilissime e libertine culture del Nord Europa, acquista i contorni del cammino salvifico alla ricerca di sé, di una cura (dall'impotenza per Salvatore), di un conforto o di un'identità. Sarà il grande salto per poter diventare grandi, affacciarsi al mondo esterno e correre verso l'ignoto (che sia un gruppo di tifosi o una comunità olandese che condivide degli spazi occupati, poco importa); ma per Felice potrebbe essere soprattutto l'occasione per riabbracciare sua madre di cui conserva un ricordo confuso, perso tra le note di una vecchia canzone e le immagini di un Calimero in tv. Quelle memorie lo guideranno in tutto il suo peregrinare, fino al vulcano islandese dalle sembianze mitiche che pacificherà gli animi.
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3.0/5