Una mappa disegnata delle strade della città. Un uomo che indossa un giubbotto color argento con uno scorpione dorato sulla schiena. Una valigia sul letto e una finestra che mostra il panorama della città notturna. Nel frattempo, le regole del gioco: cinque minuti e l'autista perfetto ti porterà dove vorrai. In questo inizio c'è già tutta l'essenza di Drive e del cinema che Nicolas Winding Refn svilupperà da qui in avanti in maniera sempre più asciutta ed estrema, risultando di volta in volta più ostico per il pubblico. Eppure questo film con Ryan Gosling, vincitore del Premio per la miglior regia al Festival di Cannes 2011, è un noir metropolitano che riesce a piacere a tutti nonostante non sia semplice entrare nei ritmi e nella poetica del regista danese. Per questo troviamo adatto, anche in questo caso, dare la nostra spiegazione del finale del film, per poter apprezzare al meglio l'equilibrio mai più ritrovato tra una narrativa appassionante e un'estetica ricercata composta da neon e musica elettronica.
Un autista silenzioso
I primi minuti del film ci descrivono perfettamente il protagonista. Silenzioso, senza nome, perfetto in quello che fa, un autista dal sangue freddo che non delude le aspettative. Il prologo del film, prima dei titoli di testa, ce lo fa subito amare nascondendoci l'inevitabile: sono le azioni che compie che rendono il personaggio affascinante e degno di essere seguito. Non proviamo alcun interesse nella personalità dell'autista interpretato da Ryan Gosling: è un uomo che vive la sua vita in maniera alquanto apatica e anonima, non ha legami, ha pochi interessi (oltre a fare questo lavoro di autista per arrotondare, lavora come meccanico in un'officina e come stunt cinematografico), non sente il bisogno di parlare per dare voce ai suoi pensieri. È un personaggio con cui è difficile provare empatia, anche se fin da subito, come fosse una strana calamita magnetica, ci affascina. Nella scena di fuga iniziale si riassume tutto il film: nel ritmo altalenante composto da veloci accelerate e momenti di stasi, nella tensione palpabile che preannuncia uno scontro che forse non avviene (più volte l'auto si ferma per evitare di farsi riconoscere), nel percepire il tempo in cui il personaggio pensa e sceglie come agire. E ancora ci viene mostrato, con un sapiente gioco in cui la radio sportiva lega l'inizio e la fine della sequenza, l'intelligenza del protagonista che agisce ben sapendo le conseguenze delle sue azioni nonché il suo disinteresse verso gli altri che gli stanno intorno. Arrivato al parcheggio dello stadio, senza dire una parola, a tempo scaduto (passano esattamente cinque minuti dall'inizio della sequenza), il nostro protagonista si infila un cappello, si sfila la giacca e si perde in solitaria nella folla.
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"Ho le mani sporche"
È questa la frase che l'autista dice al suo primo incontro con Bernie Rose (Albert Brooks), boss malavitoso che ha fatto accordi con Shannon (Bryan Cranston), il datore di lavoro del pilota che cerca una scuderia automobilistica per gareggiare nella NASCAR. Nel cinema di Refn le mani hanno un ruolo fondamentale (e il successivo Solo Dio perdona sottolineerà questo aspetto). La mancata stretta di mano presuppone l'inizio della tensione tra i due personaggi e la battuta "Ho le mani sporche" lascia presagire il destino del nostro autista: le mani saranno le sue armi, si sporcheranno di sangue, sono portatrici di violenza. Una stretta di mano mancata che tornerà nel finale quando Bernie Rose offrirà la pace e la salvezza di Irene (Carey Mulligan), la vicina di casa dell'autista che quest'ultimo cerca di proteggere essendosi innamorato di lei, e che porterà alla morte del malavitoso e alla ferita mortale nell'addome del protagonista. Con quelle mani sporche di sangue, il nostro autista avvierà il motore della sua auto lasciando cadaveri, soldi e un amore sincero dietro di sé.
La storia di uno scorpione
Conosciamo tutti la favola della rana e dello scorpione (citata anche nel film) che racconta la storia di uno scorpione che sale sul dorso di una rana per attraversare il fiume: nonostante le promesse, a causa della sua natura lo scorpione non può fare a meno di pungere la rana e trovare così la morte insieme a lei. Favola che ritorna nel film e che viene resa esplicita proprio dall'iconico giubbotto argenteo del protagonista. L'autista è uno scorpione, in più sensi. Se prendiamo in considerazione le caratteristiche del segno zodiacale, lo scorpione è di norma una personalità enigmatica, fascinosa, solitaria e misteriosa che può dimostrarsi vendicativa e violenta, caratteristiche che si ritrovano nel personaggio dell'autista e nella storia raccontata nel film. Unita alla favola, la parabola del protagonista appare chiara: quando la sua solitudine si sfalda incontrando Irene, nel momento in cui inizia ad agire spinto da affetto ed empatia, nonostante le buone intenzioni la sua natura lo porterà a intraprendere un percorso distruttivo per i suoi legami affettivi e per sé stesso. Usando le mani come chele, i pugni come puntura, sanguinando e facendo sanguinare, la sua vera natura prende il sopravvento. Attaccandosi a una rana innocente, lo scorpione sceglie il destino di entrambi.
Il calore della meccanicità
Non è una storia complicata quella di Drive tanto che può essere riassunta in poche righe. Un autista solitario si innamora della sua vicina di casa mettendola in pericolo quando si ritrova controvoglia in un giro di affari mafiosi finiti male. Nel tentativo di proteggerla darà avvio a una serie di omicidi e rese dei conti fino a rimanere ferito gravemente e costretto alla fuga. La ragazza sarà salva, ma la storia d'amore è destinata a finire, i due a non rincontrarsi, il destino del protagonista resterà avvolto nel mistero. Il linguaggio utilizzato da Refn per mettere in scena questa storia è il vero punto critico dell'operazione per chi non è abituato a certi ritmi narrativi, ma è essenziale per la riuscita del racconto. La musica elettronica scandisce il ritmo con meccanicità: è il tempo che scorre inesorabile (nei cinque minuti di ingaggio a disposizione e nel percorso a senso unico che porterà inevitabilmente alla sua conclusione naturale), è la vita apatica dell'autista che procede senza sussulti in maniera uguale, ma sono anche le pulsazioni del cuore che via via si scalda, che trasforma il nostro protagonista, che lo spinge ad agire per qualcun altro e non per sé stesso. Bisogna sottolineare, quindi, come il vero cuore di Drive si nasconda all'interno dei silenzi, del non detto, nei piccoli gesti improvvisi che trasformano la musica elettronica in un'orchestra digitale. Immersi nell'apatia e nella calma, la forza si trova in quel lento braccio che spinge in disparte Irene dalla violenza in arrivo nella cabina di un ascensore, in un unico bacio al rallentatore: un attimo d'amore prima del dominio della morte.
Un finale non troppo ambiguo
Sembra aperto il finale di Drive, ma in cuor nostro sappiamo che il nostro autista morirà di lì a poco, come lo scorpione della favola. E sappiamo che Irene si ritroverà di nuovo sola (straziante quel momento in cui continua a bussare alla porta dell'appartamento dell'autista senza che nessuno possa risponderle), vittima di un sentimento vero durato troppo poco. Quella vissuta tra l'autista e Irene è stata una deviazione autodistruttiva dalle centomila strade buie e anonime della città. L'autista è stato di parola: in questi "cinque minuti" di ingaggio, dove poteva succedere di tutto ci ha pensato lui. Un vero essere umano e un vero eroe come cantano i College nel brano musicale che conclude il film. Terminati i cinque minuti, pochi, troppo pochi per anche solo assaporare davvero la felicità dei due innamorati, l'autista prende la sua auto e si perde nella strada. È tempo che Irene (e noi con lei, spettatori che in qualche modo abbiamo empatizzato con un protagonista respingente) riesca a cavarsela da sola. Che fine farà l'autista? Continuerà a guidare silenzioso lungo le strade notturne. Non lo troveremo più.