Recensione United 93 (2006)

Utilizzando sapientemente la grammatica cinematografica e radicalizzando le istanze documentariste, United 93 rifiuta la spettacolarizzazione, supera la retorica e giunge a una sintesi complessiva di grande forza e lucidità.

Documentare l'immaginario mediatizzato

Chi mai poteva immaginare che per raccontare con sagacia e intensità la pagina più importante e controversa della storia contemporanea, alla Universal dovevano andare a punzecchiare un inglese come Paul Greengrass, regista già fattosi apprezzare per Bloody Sunday e The Bourne Supremacy.
Qui però siamo su altre coordinate e altri sono i risultati, soprattutto. Perché, è bene dirlo - nonostante l'abuso fatto del termine suggerisca cautela - :United 93 è un capolavoro. Il fatto poi, che il film racconti dell'unico aereo che l'11 settembre fallì il bersaglio, causando solo la morte dei quarantaquattro passeggeri, lo rende ancora più prezioso. D'altronde come l'11 settembre abbia cambiato il cinema americano è discorso noto. Da allora, a torto o a ragione, in forma metaforica o retorica, l'ossessione paranoica e la nevrosi hanno fatto capolinea in ogni dove.

Conscio di questo ma soprattutto dell'estrema, inarrestabile parabola mediatica che ha de-costruito e ridefinito il significato della vicenda, generando la formazione quasi in tempo reale di una parallela opinione pubblica televisiva, Greengrass fa tabula rasa di qualsiasi forma di retorica filmica e sceglie di ricostruire gli eventi con una maniacalità documentaristica. E questo, in tempi di fagocitazione assoluta, talmente onnivora da impedire anche al documentarismo di dare voce alla complessità del reale, a cui si preferisce l'aggressione apocalittica precostituita.

United 93 azzera le psicologie (ma mai l'elemento umano che, nell'insostenibile lunghissimo climax conclusivo strappa lacrime e stupore), i manicheismi, l'enfasi eroistica e soprattutto qualsiasi tentativo interpretativo al di là dei fatti, accertati, raccontati, ricostruiti. De-costruiti, ancora. Così facendo trasforma una scelta potenzialmente incauta: il rifiuto a sviluppare-imporre un proprio di vista sulla vicenda, nella forza del film. La nuova verità televisiva non è mai messa in discussione semplicemente perché Greengrass non è interessato a confermare o invalidare ipotesi non accertabili con sicurezza (vedasi principalmente la presunta ribellione ai dirottatori). E' il suo film a parlare attraverso il linguaggio, la grammatica, le scelte di messe in scena. Il documentarismo diviene un atto politico, nel suo farsi e prodursi più che nel suo raccontarsi. Non a caso il gap emotivo e la ricercata distanza nel narrare vengono controbilanciati dalla forza della sua macchina da presa - implacabile, ossessiva, invadente - al centro di tutto e tutti. Puro atto di fede verso il potere espressivo del cinema, riaffermato attraverso l'utilizzo della realtà-verità come strumento di estrema detonazione drammaturgia e al contempo, ma successivamente, di ricchezza descrittiva.

Greengrass sperimenta un percorso dalla reale portata innovativa, scegliendo di radicalizzare le istanze documentariste, come la maniacale ricostruzione documentata dei fatti, l'infrazione (più apparente che reale) del tempo filmico, e le conseguenti scelte di regia, sottraendosi così da ogni rischio di spettacolarizzazione degli eventi, come a ogni facile scorciatoia, E, a furia di sottrarre, il risultato è quello di colpire con una violenza inaudita le viscere dello spettatore. La finzione assume così il ruolo - e sta qui ancora la grande sapienza del regista - di invisibile e funzionale collante, mai invadente ma determinante per una sintesi complessiva di una forza e di una lucidità da lasciare atterriti.