Pochissimi cineasti, oggi, sanno dimostrare una capacità immersiva tanto impressionante, o riescono a coniugare il dinamismo delle sequenze più adrenaliniche e un'impeccabile coerenza nella messa in scena, con la stessa facilità della californiana Kathryn Bigelow. La quale, a sessantacinque anni, continua a riconfermarsi fra i registi di maggior talento della Hollywood contemporanea, soprattutto (ma non solo) nel campo del cinema d'azione.
A quasi cinque anni di distanza dal capolavoro Zero Dark Thirty, ovvero il ritratto più incisivo ed emblematico dell'America nell'epoca della "guerra al terrorismo", la Bigelow è tornata finalmente dietro la macchina da presa, sempre in collaborazione con il suo sceneggiatore di fiducia Mark Boal, con Detroit, la cronaca della reale sommossa della 12th Street nel luglio 1967: un'autentica guerriglia urbana che, nell'arco di cinque giorni, portò all'intervento dell'esercito e alla morte di quarantatré persone.
There's a Riot Goin' On
A mezzo secolo da quella fatidica rivolta, uno dei momenti più infuocati nella storia delle tensioni razziali nel Nord Est degli Stati Uniti, Kathryn Bigelow restituisce dunque sullo schermo le violenze, la rabbia repressa fino ad esplodere, i saccheggi e la dura repressione messa in atto delle forze dell'ordine: una repressione che, in più di un'occasione, sarebbe sfociata in veri e propri abusi di potere e in atti criminali commessi da uomini in divisa. L'incipit, già indicativo del ritmo e della forza della regia della Bigelow, ci mostra il raid della polizia nel Blind Pig, un locale notturno del Near West Side, uno dei quartieri afroamericani di Detroit, e la reazione inferocita dei clienti del bar e degli abitanti dell'area: una reazione che, in poco tempo, sarebbe degenerata in una catena di scontri fra i poliziotti e alcuni cittadini di colore, estendendosi a macchia d'olio in diverse zone della città.
Nelle sue prime battute, Detroit sembra adottare quindi un approccio da racconto corale: alla rappresentazione dei tumulti si sovrappongono difatti varie piste narrative, fra cui quella legata alla figura di Philip Krauss (Will Poulter), giovane poliziotto dal grilletto facile, oggetto di un'indagine interna, e l'arrivo in città di un gruppo di cantanti R&B, i Dramatics, giunti a Detroit con l'obiettivo di strappare un contratto discografico. Il 1967, del resto, cadeva nel bel mezzo dell'età d'oro della Motown, la prestigiosa etichetta specializzata nel soul, nell'R&B e un decennio più tardi nella disco, e fa parte di un periodo in cui la musica black oltrepassava i confini dei quartieri afroamericani per imporsi come un fenomeno trasversale e di massa. E la Bigelow, nel suo affresco di quella 'bollente' estate di Detroit, ci mostra anche questo, con tanto di una (fittizia) apparizione di Martha and the Vandellas per esibirsi sulle note della loro celeberrima Nowhere to Run, mentre fuori dal teatro la metropoli viene messa a ferro e fuoco.
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Le cinque giornate di Detroit e una notte da incubo
Dopo questa ampia parte introduttiva, il meccanismo corale del film confluisce invece in una macrosezione centrale circoscritta a un singolo luogo e a una durata in "tempo reale": l'incursione in un motel di una pattuglia di poliziotti, accompagnati da alcuni membri dell'esercito e dalla guardia giurata Melvin Dismukes (John Boyega), messi in allerta dal suono di colpi di pistola. Nell'arco di pochi minuti, la caccia a un presunto cecchino si tramuterà in un furibondo pestaggio e in un tragico bagno di sangue, con la definitiva perdita di ogni distinzione tra la difesa della legalità e quella che, a conti fatti, si rivelerà una smaccata esibizione di potere. Ed è appunto nella descrizione del rapporto fra poliziotti e sospettati, destinato a sfociare fin da subito in un gioco fra vittime e carnefici, che l'opera della Bigelow raggiunge livelli di pathos e di tensione altissimi, costruendo una narrazione incalzante e senza tregua.
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È la principale ragione di merito di una pellicola come Detroit, scandita dal superbo montaggio di William Goldenberg (storico collaboratore di Michael Mann e già ingaggiato dalla Bigelow per Zero Dark Thirty) e capace di evitare le trappole della retorica. La suspense si smorza invece in prossimità del finale, quando il war movie urbano cede il passo a un epilogo da dramma giudiziario, più frettoloso e nel complesso non altrettanto convincente. Ciò nonostante, Detroit rimane senza dubbio un film di rara potenza, talmente rigoroso nella propria durezza da non essersi conquistato troppa popolarità in patria (dove la reazione del pubblico è stata piuttosto tiepida), ma da ascrivere fra i migliori titoli della produzione di Kathryn Bigelow. E all'interno di un cast formidabile, a lasciare sbalorditi è il ventiquattrenne inglese Will Poulter, già visto in Revenant - Redivivo e a dir poco sensazionale nei panni del poliziotto sadico e razzista: da parte del potenziale Pennywise (un ruolo poi sfumato), una delle performance più inquietanti viste al cinema negli ultimi anni.
Movieplayer.it
4.0/5