Cosa rappresentò Un uomo da marciapiede per il cinema americano? Che impatto ebbe sulla società e l'immaginario dell'epoca? In quale contesto socio-culturale maturò la decisione di portare sullo schermo un'America che nessuno aveva mai avuto il coraggio di raccontare prima? Perché il suo successo faceva così paura? A queste e altre domande prova a dare una risposta il documentario di Nancy Buirski, Desperate Souls, Dark City and the Legend of Midnight Cowboy, basato sul libro di Glenn Frankel e presentato nella sezione Venezia Classici alla 79° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia Venezia.
Il lavoro sull'archivio
Qual è la genesi del progetto e perché ha deciso di raccontare la lavorazione di Un uomo da marciapiede concentrandosi sul contesto socio-culturale in cui è nato?
Mi sono sempre interessate due cose: perché l'arte ha il potere che ha e perché questo a volte sembra ineluttabile. Qual è il contesto dell'arte? E poi mi avevano incuriosito i due libri di Glenn Frankel, The Searchers: The Making of an American Legend e Mezzogiorno di fuoco: la lista nera di Hollywood e la realizzazione di un classico americano, nei quali analizza non solo la lavorazione di questi grandi film, ma anche il contesto in cui nacquero. Ne stavo parlando con lui, e guarda caso, era appena uscita una recensione del suo nuovo libro su Un uomo da marciapiede, Shooting Midnight Cowboy: art, sex, loneliness, liberation, and the making of a dark classic. Così mi sono resa conto che era quello su cui volevo davvero lavorare, e lui ha accettato. È nato tutto per caso; quei film ebbero molta fortuna e questo è stato un incontro in cui la fortuna è stata sicuramente un fattore determinante. E alla fine ce l'abbiamo fatta.
Che tipo di criterio ha seguito per selezionare il materiale d'archivio?
Ho lavorato con dei ricercatori, ma ovviamente conoscevo la storia di Un uomo da marciapiede così come il contesto degli anni '60, e sapevo che sarebbe stato un film su quell'epoca. Quindi ho fatto un elenco di cose che volevo che i nostri ricercatori trovassero. Ero anche molto interessata alla guerra del Vietnam e agli effetti che ebbe sugli anni '60 e la realizzazione del film; ho sentito che c'era una connessione fra tutti questi elementi, quasi come un effetto domino. Volevo provare a mettere il pubblico in quella situazione, mi piaceva l'idea che lo spettatore si sentisse come se stesse vivendo negli anni '60 percependo tutto quello che c'era dentro.
La cosa interessante di questo film è che non si concentra su specifici movimenti di liberazione, ma è dentro ciò che stava succedendo, assorbe il senso di cambiamento nell'aria, tutte le sfere e i tipi di ribellione in atto in quel periodo. Ed è quello che cercavo: il senso delle cose che semplicemente accadono e di come a volte non sai nemmeno cosa sia "lo spirito del tempo" mentre lo stai vivendo.
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Come ha scelto le persone da intervistare?
Nel caso degli attori di Un uomo da marciapiede, volevo parlare con chiunque fosse vivo. Sfortunatamente Sylvia Miles era morta e Dustin Hoffman non era disponibile, ma lo erano tutti gli altri ed erano molto ansiosi di parlare. Poi c'erano alcuni critici che mi erano stati consigliati da persone che conoscevano quel mondo e mi davano dei suggerimenti. Si trattava di fare ricerche e sapere chi aveva scritto degli anni '60 e quali fossero i nomi più importanti.
In una delle scene finali del suo documentario Jon Voight si commuove. Cos'è successo in quel momento?
Penso che abbia sempre capito l'enorme impatto che il film ha avuto sulla sua vita: è stato il suo primo ruolo importante e ha cambiato la sua carriera in modo significativo, ma credo che anche lui si sia commosso per il legame che univa i due personaggi, Joe Buck e Rico. È stata una reazione a quel "Ce l'hanno fatta", che dice durante l'intervista riferendosi a loro; ha sentito quella connessione profonda anche come attore verso il suo compagno di scena di allora, Dustin Hoffman. Penso che questo sia stato un viaggio per entrambi e che ne abbia cambiato la vita per sempre.
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Che influenza ha avuto Un uomo da marciapiede sulla sua carriera? E se lo potesse descrivere con una sola parola quale sarebbe?
Verità e, se posso usarne un'altra, compassione. Penso che il film di John Schlesinger abbia avuto successo non solo perché si occupa dei cambiamenti culturali in corso in quegli anni mostrando una New York insolita, cruda e realistica, e cercando così la verità, ma anche perché all'interno di quella storia, troviamo questi due protagonisti che appartengono al gradino più basso della scala sociale. E chi si prende cura l'uno dell'altro? Chi se ne occupa? Ecco dov'è la grazia e la bellezza di Un uomo da marciapiede, in questa idea che chiunque è salvabile e che tutti abbiamo bisogno di aiuto e gli uni dagli altri. E dobbiamo ricordarci che non importa se stai vivendo per strada o no, ci si connette agli altri sempre, è una condizione umana.
Quel è la scena che si porta nel cuore?
L'ultima. Ce ne sono diverse che mi hanno fatto commuovere, ma quella scena finale, e non voglio dire di cosa si tratta perché non voglio rovinarla a chi non conosce ancora il film, mi commuove sempre. Dopo averlo visto molte volte, continuo a piangere quando vedo quell'ultimo momento.
Cosa lega Desperate Souls, Dark City and the Legend of Midnight Cowboy ai suoi lavori precedenti?
C'è di certo una connessione, un filo che lo collega ad altri miei lavori che hanno gli stessi obiettivi. Le cose che mi commuovono di più delle storie che ho raccontato, sono quasi sempre simili. Hanno a che fare con persone che spesso lottano per i propri diritti, per la sopravvivenza, si scontrano con un sistema corrotto e difendono ciò in cui credono. Per me si tratta di prendere quelle storie e metterle su una tela più grande. Tutte queste persone hanno una loro bussola morale, e la maggior parte della gente nei miei film trova la propria voce attraverso le sue stesse storie.
Cosa manca degli anni '60 al cinema contemporaneo?
Non credo che manchi qualcosa. Ciò che ha reso la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70 così unici e speciali è che per la prima volta si vedevano dei film diversi. Erano nuovi, freschi, il tipo di realismo di Un uomo da marciapiede, non lo avevamo mai visto prima in un film mainstream. Poteva capitare nelle pellicole sperimentali o in quelle straniere, ma in America era molto insolito imbattersi in quel tipo di verità mostrata in modo così realistico. Oggi invece non è più così raro. Un uomo da marciapiede ha cambiato il modo di fare cinema nel nostro paese e non ce ne pentiamo.