...quando la musica se ne va in crescendo e la macchina da presa punta verso l'alto capisci che sta finendo, allora... lo detesto; detesto questo momento. E cercavo sempre di ingannarlo quand'ero ragazzina, laggiù in Cecoslovacchia. Uscivo... uscivo dal cinema immediatamente dopo la fine della penultima canzone. Era come se il film durasse all'infinito.
C'è un'intima contraddizione alla radice di Dancer in the Dark: il contrasto fra il tragico realismo della materia narrativa, inserito nell'ambientazione del sottoproletariato del Pacific Northwest degli Stati Uniti, e il vitalismo prorompente, di una gioiosità quasi infantile, sprigionato dalla sua protagonista, la giovane operaia cecoslovacca Selma Ježková. È un contrasto che costituisce uno dei principali elementi di fascino di quello che, a venticinque anni di distanza dalla sua uscita, resta probabilmente il film più elogiato nella carriera del regista danese Lars von Trier. Un fascino legato appunto alla sua incatalogabilità, al suo essere un unicum al confine fra i generi: un oggetto misterioso la cui potenza emotiva risulta inscindibile dalla gigantesca prova d'attrice di Björk.

È una scelta di casting miracolosa quella che avrebbe portato la popstar islandese a farsi dirigere da Lars von Trier, in una collaborazione a dir poco travagliata, con tensioni laceranti sul set, ma coronata da un successo sorprendente. Reduce, nel 1996, dall'affermazione internazionale ottenuta grazie a Le onde del destino, von Trier applica i principi del manifesto Dogma 95 a quella che definirà come la "trilogia del cuore d'oro", proseguita nel 1998 con Idioti e portata a termine infine con Dancer in the dark: tre storie di donne spinte in situazioni drammatiche da un amore sconfinato, ma la cui purezza si intreccia anche a una notevole dose di ingenuità rispetto ai mali del mondo. Proprio i consensi per Le onde del destino convincono la trentaquattrenne Björk ad accettare la sua proposta e a tornare sul set dieci anni dopo il suo esordio da attrice (il fantasy medievale islandese The Juniper Tree, del 1990).
Il grande ritorno al cinema di Björk

Enfant prodige della musica, con un primo LP inciso ad appena undici anni, Björk Guðmundsdóttir si era fatta conoscere nel campo dell'alternative rock nella seconda metà degli anni Ottanta come vocalist degli Sugarcubes, esperienza a cui aveva fatto seguito, nel 1993, la consacrazione da solista con il celebre album Debut, seguito nel 1995 da Post e nel 1998 da Homogenic. Fra le popstar più originali, talentuose e innovative di fine millennio, capace di muoversi con disinvoltura fra elettronica, trip hop, avanguardia e suggestioni jazz, per il suo secondo cimento da attrice Björk accetta di calarsi nel ruolo di Selma Ježková, operaia cecoslovacca trapiantata nello Stato di Washington insieme al figlio dodicenne Gene (Vladica Kostic), con cui vive in una roulotte parcheggiata sul terreno del poliziotto Bill Houston (David Morse).

Il nostro primo incontro con Selma nell'incipit del film, subito dopo un'overture orchestrale che richiama la tradizione dei grandi musical, avviene sul palcoscenico di un teatro, durante le prove di una compagnia amatoriale impegnata in un allestimento di Tutti insieme appassionatamente. La presenza di Björk nella parte di Selma è legata ovviamente al suo statuto di cantautrice: è lei a comporre e interpretare i sette brani originali della colonna sonora, pubblicata in un album dal titolo Selmasongs. Ma al di là dell'indispensabile contributo sul piano musicale, la popstar di Reykjavík si produce anche in un'impressionante performance d'attrice, restituendo sullo schermo il precario equilibro della sua Selma: un personaggio caratterizzato dall'entusiasmo di una bambina nei confronti di tutto ciò che ama, a partire dai musical, ma pure da una strenua determinazione nel percorrere fino in fondo il proprio calvario, conscia del peso riposto sulle sue spalle.
Ballando verso le tenebre: dietro la storia di Dancer in the Dark

Se la forza motrice de Le onde del destino era l'amore totalizzante della Bess McNeill di Emily Watson per il marito Jan Nyman (Stellan Skarsgård), al cuore di Dancer in the Dark vi è l'amore di Selma per il figlio Gene, che vuole sottrarre a quella sorte di oscurità a cui lei, affetta da una malattia ereditaria alla vista, sta andando incontro in breve tempo. È una sorte amara, quella di Selma, ma fronteggiata con la serenità e la leggerezza che irradiano il volto di Björk, e dalla voce carezzevole che leviga il rimpianto sulla melodia della canzone I've Seen It All. Se la narrazione rievoca i canoni del melodramma (si pensi a Magnifica ossessione di Douglas Sirk), seppure ricollocato in una cornice proletaria dai toni quasi fassbinderiani, la protagonista va in direzione opposta, stemperando le venature tragiche e abbracciando invece la natura delicata e sognante dei musical, "perché nei musical non accade mai niente di terribile".

E tuttavia, Björk riesce nell'impresa di non scivolare neppure su questo fronte, sfuggendo al rischio di trasformare la sua Selma in una creatura fragile, completamente succube degli eventi. Dalla spontaneità delle sue interazioni quotidiane, a partire dallo stretto legame con l'amica e collega Kathy (ruolo affidato a un'impeccabile Catherine Deneuve), al caparbio ottimismo con cui si ostina a svolgere turni di lavoro extra anche laddove la vista la sta abbandonando, Selma appare animata da una cristallina, solidissima consapevolezza, che si manifesta nell'atteggiamento adottato rispetto alle difficoltà esistenza. Perfino quando tali difficoltà assumono dimensioni pressoché insormontabili: il furto che rischia di frantumare il progetto a beneficio di Gene o l'ingiusta accusa che trasporta l'opera di von Trier sul terreno del film giudiziario.
La musica di Selma come antidoto al dolore

Selma non è in grado di vedere e capire appieno la realtà, negandone le abiezioni, o forse il filtro del sogno - vale a dire il musical - è piuttosto uno strumento di resilienza e un'indispensabile fonte di speranza? Se il cupo nichilismo del cinema di Lars von Trier potrebbe far propendere per la prima opzione, il caso specifico di Dancer in the Dark ci induce a non sottovalutare la seconda. Soprattutto in virtù di una protagonista che, seppure soverchiata dalle circostanze avverse, è in grado di far fronte al dolore con una dignità silenziosa ma incrollabile, e con l'ombra del sorriso di chi sa di essere nel giusto, nonostante tutto, e che il proprio sacrificio non sarà vano. Non a caso al valore complessivo del film, insignito della Palma d'Oro al Festival di Cannes del 2000, la giuria riconoscerà anche l'apporto essenziale di Björk, tributandole il premio come miglior attrice.

"You were always there to catch me", è il ritornello ripetuto con traboccante vitalità da Selma all'apice del processo in In the Musicals, in omaggio al divo cecoslovacco Oldřich Nový, a cui presta volto e voce l'iconico Joel Grey di Cabaret, che l'accompagna in un vivace tip tap. Perfino nel vortice della tragedia la sua Selma rimane una figura radiosa, pronta a difendere quella realtà 'altra' e irrinunciabile, quel mondo di canzoni di cui ci ha aperto le porte. E quando tutto sembra perduto, nel ristretto squallore di una cella, mentre la disperazione sta per prendere il sopravvento, la sua voce incrinata dal pianto riesce comunque ad aggrapparsi a "Raindrops on roses and whiskers on kittens": l'elenco di My Favorite Things di Tutti insieme appassionatamente, l'estrema apologia della bellezza in risposta all'orrore. Perché in fondo, come Selma ci ha ricordato per tutto il film: "They don't know us, you see/ It's only the last song/ If we let it be".