Copenhagen Cowboy, la recensione: ciao, ciao maschio

La recensione di Copenhagen Cowboy, nuova serie creata, scritta e diretta da Nicolas Winding Refn: demolizione pezzo per pezzo del maschio. Su Netflix.

Copenhagen Cowboy, la recensione: ciao, ciao maschio

Il silenzio e l'immobilità rivelano la purezza dell'anima.

Lo ha detto Nicolas Winding Refn nel 2019, durante la sua masterclass al Festival di Cannes. Quando lo si vuole sminuire, di lui e della sua opera si dice che è solo superficie, tutta forma e poca sostanza. Chi parla così non ama il cuore più puro del cinema: l'immagine. E per Refn l'immagine è sacra. Basta con questa cosa della "superficialità": molto spesso la forma è sostanza, non soltanto sullo schermo. La moda, che il regista tanto ama, certo, è business, ma è anche arte, costume, politica: pensiamo a Vivienne Westwood, scomparsa da poco, che con tessuti e borchie ha fatto una rivoluzione. Tutte queste cose, abiti, trucco, ricerca della bellezza, hanno un filo comune: sono spesso legate al femminile. E il regista danese ama tutto ciò che riguarda le donne. Lo dice lui stesso, che ha due figlie e una moglie con cui lavora. In risposta a chi gli dà del superficiale e "modaiolo", si firma come un brand, mettendo a tutto campo la scritta "by NWR". Non fa eccezione il suo ultimo progetto, presentato in anteprima a Venezia 79: la recensione di Copenaghen Cowboy parte con un avvertimento. Se Refn non vi piace, sappiate che qui è un Refn al cubo.

Copenhagen Cowboy
Copenhagen Cowboy: una scena

Nei sei episodi della serie Copenaghen Cowboy, su Netflix dal 5 gennaio, ci sono tutti gli elementi che hanno reso l'immaginario del regista unico e inconfondibile. È commovente come, nonostante il linguaggio audiovisivo stia cambiando sempre più, NWR rimanga fedele a se stesso. Ormai nei video su TikTok un'inquadratura non deve durare più di due secondi, pena la perdita dell'attenzione di chi guarda, ma al regista non importa. Continua a dilatare tempo e spazio, con un ritmo lento, a volte lentissimo: inquadrature infinite, corpi che si muovono al rallentatore e sguardi che sembrano sempre cercare qualcosa altrove. Si prende i suoi tempi, Refn, vuole che lo spettatore si perda nelle sue immagini, nei suoi incubi in movimento. Ed è proprio ciò che succede guardando la serie, la seconda per l'autore danese, dopo Too Old To Die Young fatta con Prime Video.

Questa volta è tornato a casa, nella Copenhagen del titolo: era dal 2005, da Pusher 3, che non girava qualcosa in danese, la sua lingua madre. Forse non avrebbe potuto essere diversamente: il regista porta all'apice un percorso cominciato diversi anni fa, intuibile già da Drive, più chiaro in Only God Forgives e lampante in Too Old To Die Young. Refn si interroga su cosa significhi essere uomo. Non inteso come essere umano, ma in quanto maschio. Per essere brutali come la serie: in quanto possessore di pene. La risposta che il regista trova - ed è sorprendente visto che è dotato di pene anche lui - è un profondo orrore.

Uomini o porci?

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Copenhagen Cowboy: una scena della serie

Nella Copenhagen più nascosta e oscura, Miu (sì, il nome viene dalla linea di Prada Miu, Miu: Refn sta lavorando con la casa di moda), ragazza enigmatica che indossa sempre una tuta blu, viene ingaggiata dalla proprietaria di un bordello, Rosella, per rimanere incinta. Si dice infatti Miu sia in grado di portare fortuna e compiere miracoli: la matrona è parecchio in là con gli anni e biologicamente parlando rimanere incinta sembra impossibile. Il fratello di Rosella è cantante di giorno e pappone di notte: è un criminale e le ragazze sfruttate come prostitute sono trattate peggio che se fossero animali. Chiuse in uno scantinato, vengono abusate da uomini che non parlano, grugniscono, mentre le possiedono con atti meccanici spinti da una voglia di dominio più che di passione.

Nicolas Winding Refn su Copenhagen Cowboy: "Tornare a lavorare in Danimarca è stato meraviglioso"

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Copenhagen Cowboy: una scena della serie

Non va molto meglio in ambienti più altolocati: il rampollo di una ricchissima famiglia, Nicklas (Andreas Lykke Jørgensen, al suo esordio) in apparenza dotato di una bellezza che rispetta canoni universalmente riconosciuti e privilegiati - quali lineamenti delicati, labbra carnose, occhi chiari e capelli biondi - è in realtà un mostro. Per lui l'omicidio, anzi no, il femminicidio, visto che ama uccidere soltanto donne in quanto tali, è una forma d'arte. Tutti, dai criminali al ragazzo, si liberano dei corpi facendoli divorare da maiali. E maiali sono un po' tutti gli uomini che si vedono in Copenhagen Cowboy: grugniscono, sono aggressivi, pensano soltanto ai propri bisogni.

Miu guarda e ascolta. Con i suoi occhi penetranti e scuri scava nell'anima delle altre persone, che non riescono a rimanere indifferenti al suo sguardo: c'è chi ne è attratto, chi lo teme, chi si sente sfidato e chi innervosito. Leggera, sembra non appartenere a questo mondo: il merito è della sua interprete, Angela Bundalovic, con un passato da ballerina. Il suo totale controllo del corpo è ipnotico. Con un taglio alla Giovanna d'Arco, nella versione di Milla Jovovich nel film di Luc Besson del 1999, e una tuta che ricorda quella gialla e nera di Bruce Lee (poi ripresa anche dalla Sposa di Uma Thurman in Kill Bill di Quentin Tarantino), Miu è sempre dalla parte delle donne. Le difende, vuole vendicarle, le capisce, le ama. Minuta e in apparenza indifesa, Miu non ha soltanto dalla sua una grande e inspiegabile forza spirituale: sa anche combattere. E il suo stile di combattimento consiste nello sfruttare a proprio vantaggio la forza dell'avversario. L'unico scontro che la preoccupa è quello con la sua nemesi, Rakel (Lola Corfixen, figlia di Refn), che sta cercando.

Refn, il re del "neon noir"

È vero, il cinema di Refn è debitore di molteplici influenze: David Lynch su tutte. Copenhagen Cowboy si potrebbe definire la sua risposta a Twin Peaks. Ma la parola chiave è "sua": nei sei episodi della serie ci sono ogni genere e riferimento possibili, dall'horror al western, al thriller, fino alla fantascienza, passando per i film di arti marziali. C'è perfino un cameo di Hideo Kojima, suo grande amico (in questo modo il regista si è fatto ricambiare il favore di apparire nel videogioco Death Stranding). Eppure si capisce da ogni singolo fotogramma che si tratta di un'opera "by NWR": le luci al neon, i colori, su cui dominano il rosso, il blu e il rosa, la lunghezza delle inquadrature, la colonna sonora fatta di suoni che ti scavano nel cervello (grande colonna sonora di Cliff Martinez, con cui ormai collabora da più di 10 anni, dal set di Drive). Il "neon noir" di Refn è un genere consolidato e tutto suo.

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Copenhagen Cowboy: una scena della serie

E, come accade sempre, in questa estetica così forte e ingombrante il regista mette tutte le sue ansie, le sue esperienze, ciò che lo circonda. In Copenhagen Cowboy ha sicuramente messo il desiderio di tornare a casa, tra facce più europee e meno patinate di quelle americane, e la necessità di mettere in discussione la mascolinità. Il padre di Nicklas dice al ragazzo che, anche se il legame tra una madre e un figlio è più forte, loro sono uniti dalla massima espressione del potere che Dio abbia creato: il cazzo. Ebbene, il regista smantella pezzo per pezzo questa idea, criticando un sistema di valori ormai non più sostenibile e sempre più rigettato. Sorprende che a fare questa critica al patriarcato sia un uomo. E per questo arriva ancora più potente: mettere in dubbio il privilegio immeritato che si possiede da secoli non è da tutti.

Conclusioni

Come scritto nella recensione di Copenhagen Cowboy, Nicolas Winding Refn torna in tv dopo Too Old To Die Young grazie alla serie Netflix. E torna anche a casa: la storia è infatti ambientata nella Copenhagen del titolo, sua città natale. La protagonista è Miu, che si dice sia in grado di portare fortuna e compiere miracoli. La criminalità della città la rispetta e la vuole dalla sua parte. Ma Miu è sempre dalla parte delle donne, che gli uomini di Copenhagen trattano come animali. Un viaggio inquietante e ipnotico che sembra un incubo, in cui il regista si interroga sul concetto di "maschio" e lo smantella pezzo per pezzo.

Movieplayer.it
4.0/5
Voto medio
4.5/5

Perché ci piace

  • Lo stile inconfondibile di Refn, ormai il re del "neon noir".
  • La protagonista, Angela Bundalovic, che sfrutta al meglio il proprio passato di ballerina, conferendo a Miu un'aura quasi aliena.
  • La colonna sonora di Cliff Martinez.
  • La cura maniacale per abiti, scenografie e oggetti.
  • La sorprendente critica al patriarcato di Refn.

Cosa non va

  • Se non amate lo stile di Refn, qui è al cubo.
  • Il ritmo dilatato potrebbe mettere in difficoltà alcuni spettatori.