E' facile, dato il tema del loro nuovo film L'arrivo di Wang, dire che i fratelli Manetti sono degli "alieni" qui al Lido; eppure questa è anche la definizione più calzante, almeno per quanto riguarda il panorama italiano, vista la peculiarità della proposta cinematografica che portano avanti, e l'importanza di un palcoscenico come quello veneziano per una pellicola così fuori dagli schemi, anche nell'ambito di un genere poco frequentato dal cinema italiano come la science fiction. In occasione della presentazione del film, abbiamo fatto una chiacchierata con i due simpatici registi, che hanno spaziato dalla genesi della pellicola alle prospettive del cinema di cui sono esponenti.
Qual è stata la genesi del film?
Marco Manetti: Il film è nato dalla collaborazione e la società di effetti speciali Palantir, di Simone Silvestri. L'idea iniziale era quella di un cortometraggio con effetti speciali diversi, insoliti per il cinema italiano. Noi poi abbiamo pensato che l'idea si sarebbe adattata meglio a un lungometraggio; comunque è anche una storia che ci siamo sentiti dentro.
Il film è interamente realizzato in digitale?
Antonio Manetti: Sì, al 100%. La stessa creatura è stata frutto di un lavoro di postproduzione, realizzato interamente con l'animazione 3D. E' stata la prima volta che abbiamo lavorato con queste tecnologie, abbiamo dovuto imparare anche noi. Il tutto comunque è stato coordinato proprio da Simone Silvestri.
Marco Manetti: E' proprio la Palantir che ci sta spingendo verso questa direzione, verso un utilizzo più complesso di questa tecnologia, ma per noi gli effetti speciali sono un elemento in più, non l'anima del film. Però riutilizzarli sì, ci piacerebbe. Noi in realtà stiamo pensando a un sequel di questo film, sarebbe bello poter proseguire la storia.
Antonio Manetti: Girare e non vedere il risultato ci ha sempre fatto molta paura, ma la prova del nove per la riuscita del film è proprio la proiezione. Una volta rivisto il film, l'effetto ci è sembrato molto riuscito.
Marco Manetti: E comunque, a noi in genere piace più muovere gli attori che la macchina da presa, anche se, essendo noi anche registi dil videoclip, verrebbe da pensare il contrario. Proprio per questo, fare un film con un personaggio che in realtà non c'è ci sembrava quasi contro natura.
Perché, secondo voi, un genere come la science fiction non ha mai preso piede in Italia?
Marco Manetti: Qualcosa in passato c'è stato, in Italia: in parte era spazzatura, ma abbiamo visto anche qualcosa di decente, sia al cinema che in televisione, basti ricordare serie come A come Andromeda. In realtà non so dire precisamente perché il genere non abbia mai preso piede nel nostro paese; è un genere apparentemente molto costoso, ma solo sulla carta.
Antonio Manetti: Io un'idea ce l'ho: il cinema di genere italiano ha avuto il suo periodo migliore negli anni '60 e per gran parte dei '70, per poi iniziare un declino proprio alla fine di quel decennio. La fantascienza cinematografica è rinata proprio in quel periodo con Guerre Stellari, e l'Italia spesso andava a rimorchio dei grandi successi statunitensi, con pellicole dal carattere ben più artigianale. Non è un caso che dagli anni '50 all'inizio degli anni '80 ci sia stato un "buco" nella produzione di science fiction italiana, con poche eccezioni: abbiamo visto di nuovo qualcosa proprio in quel periodo (Hercules, Alien 2 sulla terra e simili) prima di una nuova, lunga pausa che è finita solo con Nirvana di Gabriele Salvatores.
Come vi dividete il lavoro, sul set?
Marco Manetti: Noi abbiamo una mente quasi unica, gli stessi gusti, gli stessi modi di arrivare alle cose: questo, in fase di scrittura e di preparazione. Sul set, invece, quando il lavoro dev'essere più rapido, una tale sinergia diventa impossibile, e dobbiamo per forza dividerci i compiti. Io, quindi, lavoro più con gli attori, Antonio si occupa più della macchina da presa. Se le cose funzionano bene, comunque, il risultato finale appare in totale sinergia.
Marco Manetti: Io penso che tutti noi, in fondo, abbiamo un istinto che governa le nostre azioni: L'appartenenza ai gruppi politici non è altro che una sovrastruttura. Se ci fosse davvero un'invasione credo che verrebbe fuori l'anima autentica delle persone, e potremmo avere delle sorprese: magari l'attivista per i diritti umani finirebbe a dire "prendiamoli a bastonate!" mentre il naziskin sarebbe più aperto al dialogo... è in queste situazioni che viene fuori l'uomo per com'è realmente.
Potete anticiparci qualcosa su questo ipotetico sequel?
Marco Manetti: Non possiamo dire molto perché vogliamo evitare il più possibile gli spoiler sulla trama. Possiamo dire però che, se si farà, sarà incentrato sulla resistenza all'invasione, inizierà sul pianeta di Wang e racconterà perché è stato scelto proprio lui per il primo contatto con i terrestri. Comunque va sottolineato che si tratta solo di un'ipotesi, non è affatto detto che un sequel di questo film verrà effettivamente realizzato: a noi piace fare film a basso budget, ma dobbiamo anche confrontarci con una realtà che è quella del mercato.