In A Complete Unknown il Greenwich Village di Bob Dylan rinasce ed è co-protagonista

Per raccontare la svolta elettrica dell'artista, James Mangold aveva bisogno di un altro protagonista oltre a Chalamet: il luogo.

Il Bob Dylan di Timothée Chalamet in A Complete Unknown

La prima volta che ha avuto a che fare col biopic su una leggenda della musica americana, non gli è andata benissimo. Che detta così pare fuorviante perché il film in questione, Quando l'amore brucia l'anima - Walk the Line, è stato apprezzato dalla critica, amato dal pubblico, ma non ha portato alcuna statuetta sulla libreria di casa del suo regista, James Mangold. Agli Oscar del 2006 concorreva in cinque categorie, Miglior attore per il Johnny Cash di Joaquin Phoenix e Miglior attrice per la June Carter di Reese Whiterspoon, Miglior montaggio, Migliori costumi e Miglior sound mix e a vincere fu la sola Reese Whiterspoon.

Reese Witherspoon con Joaquin Phoenix nel film Walk the Line
I due protagonisti di Walk the line di James Mangold

Ora, Mangold ha la possibilità di ambire a una statuetta dorata per la regia di A Complete Unknown, in quanto candidato agli Oscar 2025 per il biopic che racconta la svolta elettrica di Bob Dylan, interpretato da Timothée Chalamet (anch'esso candidato). Un lungometraggio che ha la responsabilità di narrare non solo un momento fondamentale nella vita di uno dei più grandi artisti viventi, in quanto l'altro protagonista della storia è il contesto in cui Dylan si muoveva all'epoca, il Greenwich Village di New York dei primi anni sessanta.

Riscoprire le viscere della Grande Mela

La missione di James Mangold per A Complete Unknown era semplice a dirsi e molto meno a farsi.
Voleva riportare alla luce uno spaccato di New York che, ormai, si è sedimentato nel tempo in quella Grande Mela che è da tempo una delle città più gentrificate del mondo. Andava riesumata una New York che vive nella memoria di chi l'ha vissuta - o nelle note di chi ci è cresciuto artisticamente - una metropoli fatta di fuliggine, pareti sporche e intonaco scrostato condita da spazzatura e mozziconi di sigaretta.
Insomma: non la Big Apple delle reel social tutte uguali e studiate a tavolino sulle 10 Cose da fare assolutamente a NY o le 5 caffetterie più costose di Manhattan.

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Un scena da A complete unknown

Per farlo, sì è affidato al production designer François Audouy con cui ha già lavorato a progetti come Wolverine: L'immortale, Logan - The Wolverine e Le Mans '66 - La grande sfida. Chiacchierando con IndieWire, Audouy racconta come si sia approcciato a questo compito non da poco in cui ha sentito "la responsabilità di fare le cose nel modo giusto, non solo copiando le foto trovate nei libri fotografici che teniamo sul tavolino del salotto e simili". Il production designer non voleva solo riprodurre qualcosa di superficiale.

Desiderava, appunto, cogliere l'essenza di un contesto metropolitano unico in cui voleva che "si percepisse qualcosa... come dice Bob Dylan, 'How does it feel?'. Sono diventato ossessionato dall'idea del Greenwich Village come comunità artistica fatta di grandi artisti, scultori e musicisti, situata nel cuore di una metropoli. Qualcosa di bellissimo perché tutto si concentrava in un miglio quadrato, o giù di lì".

Un miglio quadrato dove si sono mosse leggende come Dylan appunto, ma anche Pete Seeger, Woody Guthrie, Richie Havens, da dove ebbe inizio, per lo meno da un punto di vista simbolico, il movimento LGBT, che ha ispirato i più noti autori della beat generation e che è sempre stato un contesto a sé anche dal punto urbanistico, con le sue vie più disordinate rispetto all'abituale reticolo di Manhattan.

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Il trasloco sull'altra riva del fiume Hudson

Per farlo però, François Audouy ha deciso di traslocare dall'altra parte dell'Hudson. Il motivo? È presto detto: nel New Jersey di oggi c'è più "vecchia New York" che a New York. Uno dei "personaggi principali" di A Complete Unknown, la MacDougal Street dell'epoca, è rinata nella Jersey Avenue, nel centro di Jersey City che è stata arricchita con vetrine e con la ricreazione di luoghi leggendari come il The Kettle of Fish, Café Reggio, Café Wha, Don and Elsie's Music Box, il Minetta Tavern e The Gaslight. Un processo che Audouy illustra così: "Abbiamo mappato tutto ciò che c'era nei primi anni '60 immaginando il Village come una sorta di laboratorio che ribolliva di idee musicali, che si diffondevano sulla costa est e poi in tutto il paese".

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James Mangold dirige il suo protagonista

Una MacDougal Street che, in maniera molto saggia, lo scenografo ha voluto rappresentare come qualcosa di vivo, in costante evoluzione, non come qualcosa di esteticamente fisso e scolpito nel tempo. Cosa questa che, dal punto di vista della riproposizione di quell'epoca, poteva essere una trappola. D'altronde, Dylan mise piede a New York nel '61 e, in quel periodo, si avvertiva ancora nel Greenwich Village la sovrapposizione con gli anni '50 mentre, a partire dal '65, cominciano a percepirsi quelle mutazioni estetiche che fanno capire anche a Bob Dylan che i tempi stanno cambiando. Aggiunge infatti Audouy che Dylan "sente tutti questi suoni e percepisce il cambiamento che è avvenuto, ed è emozionante. Penso fosse profondamente connesso, quasi spiritualmente, con ciò che stava accadendo in America in quel momento. Ed è proprio quello che mostriamo nel film nel momento in cui passa dal folk acustico al rock elettrico".

Il centro della creatività

Ma dove si concretizzava l'estro creativo del giovane Robert Allen Zimmerman? In un piccolo angolo di mondo, cioè il suo primo appartamento nella 4th Street di Manhattan il cui interno è stato ricostruito in studio.

Il piccolo spazio includeva una camera da letto, un angolo cottura e un soggiorno con camino e due finestre. La scenografa Regina Graves e François Audouy hanno potuto riempirlo di dettagli di ogni genere studiando un sacco di materiale fotografico originale, comprese 200 foto inedite del celebre fotografo di Dylan, Ted Russell. Per Audouy "È stato incredibile vedere foto che nessuno aveva mai visto prima" che hanno permesso di ricreare tutto ciò che c'era in quelle immagini: la stessa poltrona con le orecchie, lo stesso giradischi, un Decca anni '50, la macchina da scrivere giusta, una Olivetti Lettera 32 del 1954, il peluche, le opere d'arte sulle pareti, i libri, i dischi. Uno spazio immersivo in cui tutto, compresi i fornelli elettrici e l'impianto idraulico, funzionavano davvero.

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Uno scorcio della New York del film

Un set che per Timothée Chalamet è divenuto una specie di estensione perché ogni elemento scenico aveva un perché, una sfumatura pratica ed esistenziale, per così dire. Perché era fondamentale raccontare il passato "di questo ragazzo che era arrivato a New York, viveva nel suo primo appartamento, non sapeva fare il caffè e ordinava cibo cinese dal ristorante al piano di sotto. Questo effetto macchina del tempo è stato davvero utile per Timmy, che ha potuto indossare l'appartamento come un costume e abitarlo".