Le sirene della polizia illuminano un quartiere pronto a svegliarsi, per cadere nell'incubo di una notte costante. Patsy Ramsey stringe tra le mani un foglio: non è una lista della spesa, e nemmeno un biglietto di auguri per le feste appena concluse. È una lettera di riscatto. Sua figlia è stata rapita. Quello che Patsy e John ancora non sanno è che JonBenét giace invece esanime sul pavimento della taverna di casa. È l'inizio di un caso ancora irrisolto, illuminato dalle luci dell'ambulanza, e dalla telecamera dei giornalisti. Non è un caso se Cold Case: chi ha ucciso JonBenét Ramsey si apra allora con degli schermi televisivi e l'inserimento di una VHS nel lettore.
Oltre alla sensazione di un viaggio temporale verso anni che sembrano ormai lontani, c'è la forte volontà di rendere esplicito quanto l'intervento mediatico, la corsa all'ultima notizia, e la soddisfazione di una sempre più dilagante curiosità morbosa, abbia intaccato, come un virus nel sistema immunitario, l'omicidio della piccola JonBenét. Il come, il cosa ormai passa in secondo piano: quello attuato e seguito con fare ossessivo da telecamere sempre accese, e reporter in azione, si sveste di etica professionale, per farsi spinta pressante alla consegna del mostro in pasto alla stampa.
Cerca il mostro in casa
Dovevano trovare l'aguzzino della piccola JonBenét, gli inquirenti; la sentivano sul collo questa pressione dilaniante, soprattutto in una cittadina in cui tutto si muove calmo, e il crimine più efferato è forse un oggetto rubato in un qualche negozietto. E se l'omicida non si trova, allora tanto vale provare a ricercarlo nello spazio di casa. Basta un dito puntato, come quello di Donald Sutherland in Terrore dallo spazio profondo, che i giornalisti corrono, le loro mani scrivono, le loro bocche parlano, e i genitori di JonBenét diventano i mostri da affossare e distruggere. C'è una forte denuncia sociale e culturale che vive nelle fondamenta di Cold Case: chi ha ucciso JonBenét Ramsey. Nell'arco di tre episodi, si scandaglia un caso ancora aperto come quello della piccola reginetta di bellezza, per tracciare il corpo di un voyeurismo macabro che da quel 1996 non solo non si è ancora spento, ma si è addirittura amplificato.
È un caso, quello di JonBenét, che vive di negligenze, prove contaminate e altre ignorate. E proprio per questo, continua a bruciare un forte interesse attorno a tale evento, spingendo molti non solo ad avanzare ipotesi su possibili responsabili, ma addirittura a galoppare con la fantasia, scadendo nel complottiamo più becero (secondo molti JonBenét non sarebbe mai morta, ma anzi, sarebbe addirittura Katy Perry!). Quello della piccola Ramsey è, dunque, un caso mediatico che continua a far parlare di sé, e che tenta di ritrovare adesso una sua summa di indagine in questa docu-serie firmata Netflix.
Lo fa con inserti interessanti, come schermi televisivi a tubo catodico ora pronti a elevarsi a raccoglitori di verità celate, falsate, o ignorate. E se non sono gli schermi televisivi a impazzare sulla scena, sono pagine di giornale, registrazioni su nastri, fogli di carta: un ricettacolo di dettagli atti a rimandare metonimicamente al mondo dei mass-media, universo capace di aiutare le indagini, e allo stesso tempo a distruggerle.
Cold Case: chi ha ucciso JonBenét Ramsey e la caduta dell'obiettività narrativa
Per realizzare un buon documentario bisogna innanzitutto fare un passo indietro, svestirsi di pregiudizi e valenze personali, per analizzare ogni singolo dettaglio con fare assolutamente neutrale e super-partes. Per realizzare un buon documentario bisogna, cioè, essere obiettivi. Un'oggettività di racconto che non sempre viene rispettata in Cold Case: chi ha ucciso JonBenét Ramsey. Più i minuti passano, più si percepisce con fare anche fastidioso, un malcelato tentativo di vertere la narrazione a favore dei genitori della piccola.
È come se la stessa docu-serie fosse progettata per liberare i due dalle maglie che li tenevano stretti al ruolo di possibili omicidi, scagionandoli del tutto grazie alla forza della luce di uno schermo. Quella televisione che li aveva additati come mostri, adesso tenta, cioè, di liberarli dal peccato. Ogni testimonianza raccolta, ogni materiale di repertorio visionato, viene montato al fine di orientare il pensiero spettatoriale verso un preciso metro di giudizio. Per quanto sottile, permane la volontà di raccontare i fatti favorendo una delle parti in causa, quasi come ammenda per i torti subiti, o una dichiarazione di scuse avanzata in formato televisivo.
La parola ai genitori
Ponendo l'attenzione al minutaggio riserbato a ogni personaggio raggiunto e intervistato, è palese quanto a dominare la scena siano proprio il padre e la madre di JonBenét (sebbene Patsy partecipi solo indirettamente e attraverso video di repertorio a causa della sua prematura morte nel 2006). Non vengono inoltre trattati molti dei fatti che hanno invece segnato le indagini e - di conseguenza - la ricezione mediatica del caso. Sebbene accennata, viene volutamente ignorata l'ipotesi di un coinvolgimento del fratello maggiore della piccola in qualità di possibile assassino. Un fatto che da una parte poteva favorire il senso di ingiustizia vissuta dalla famiglia, e dall'altra offrire un ulteriore tassello conoscitivo allo spettatore al fine di sviluppare un proprio pensiero critico sulla faccenda.
Se la scelta di tralasciare le varie ipotesi complottiste (le stesse che hanno ridestato curiosità su un caso come questo) può risultare comprensibile, la decisione di omettere altri dettagli salienti dell'inchiesta, produce un cortocircuito tale da alimentare il dubbio che Cold Case: chi ha ucciso JonBenét Ramsey prenda una netta posizione all'interno della riproposizione del caso, venendo meno a quello che un documentario è chiamato a fare: raccontare la (possibile) verità. E in un mondo come quello della piccola JonBenét dove molto brancola ancora nel buio, c'era bisogno che qualcuno donasse un po' di luce, anche nella forma di una ripresa televisiva.
Conclusioni
A fatti normali, tre episodi sarebbero sufficienti per trattare con dovizia di particolari un caso così conosciuto come quello dell'assassinio della piccola JonBenét Ramsey. Ciononostante, nel mondo di Cold Case: chi ha ucciso JonBenét Ramsey tutto corre veloce, rendendo limitante la triplice suddivisione del caso. La docu-serie firmata pare infatti non sfruttare appieno il materiale a propria disposizione, risultando non solo incompleta di informazioni, quanto poco obiettiva nella sua portata giudicante. Episodio dopo episodio, si muove (neanche tanto) silente una presa di posizione chiamata a difendere i genitori della piccola, elevandoli a parte lesa della storia. Una mancanza di obiettività che fa venire meno uno dei principi fondanti del documentario, sopratutto quello true-crime.
Perché ci piace
- L'impianto meta-televisivo di racconto.
- La potenza dei materiali di repertorio e i video di archivio mostrati.
Cosa non va
- La volontà di scagionare e liberare i genitori dal ruolo di carnefici.
- La mancanza di obiettività di racconto.
- La scelta di non includere molti elementi facenti parte delle indagini.