Ancora cinema italiano al Festival del Film di Roma che oggi ha presentato, nella sezione Anteprima, la commedia declinata al sociale di Si può fare, diretto da Giulio Manfredonia e incentrato su un gruppo di malati di mente che, negli anni '80 della legge Basaglia, tentano il reinserimento nella società, aiutati da un sindacalista che fa scoprire loro il mondo del lavoro. Accolto positivamente dalla stampa presente alla kermesse capitolina, il film è in uscita domani in cento copie distribuite da Warner Bros. Alla conferenza stampa che ha seguito la proiezione festivaliera sono presenti il regista Giulio Manfredonia, lo sceneggiatore Fabio Bonifacci e gli attori Claudio Bisio e Anita Caprioli.
Giulio Manfredonia, com'è stato girare questo film e perché non è in concorso al Festival di Roma, ma è stato presentato nella sezione Anteprima?
Giulio Manfredonia: Credo che se uno va a un festival debba essere pronto a concorrere e io sarei stato felice di farlo, ma mi è comunque piaciuta la collocazione che è stata trovata per il film. Ci abbiamo messo quattro anni a realizzare Si può fare. La nostra intenzione era quella di partire dai personaggi per fare ragionamenti più generali. Volevamo parlare di questi 'poverelli' fuori dal mondo che attraverso una legge, la 180 anche detta Basaglia, sono stati buttati improvvisamente nella realtà senza i mezzi adatti per affrontarla.
Cosa le è piaciuto di questa storia e quali sono stati i suoi riferimenti nel girarla?
Giulio Manfredonia: L'originalità del film sta tutta nella sceneggiatura che parte da una storia vera molto italiana. Ho cercato di rendere al meglio questa vicenda e questa legge poco frequentata al cinema. Tra i riferimenti cinematografici, molto importante è stato Qualcuno volò sul nido del cuculo per il modo in cui ha affrontato questo argomento. Siamo quindi partiti dall'idea che tutto dovesse essere vero. Abbiamo conosciuto persone con questi problemi, ci siamo documentati molto andando nelle strutture dismesse per scoprire le terapie, spesso disumane, alle quali venivano sottoposti i pazienti.
Come ha lavorato con gli attori?
Giulio Manfredonia: Il lavoro d'interpretazione che ho fatto con gli attori è stato fatto sull'improvvisazione. Volevamo visi non conosciuti dal grande pubblico, ma ci servivano attori veri, dei fuoriclasse. Abbiamo cominciato dalla preparazione al provino durata tre mesi, durante la quale qualcuno è arrivato già con la sua idea del personaggio. Abbiamo quindi valutato il potenziale di crescita degli attori e fatto esercitazioni borderline, come rinchiuderli per dodici ore in una casa o relazionarsi con oggetti strani.
Perché non siete ricorsi invece a persone realmente affette da disturbi mentali?
Giulio Manfredonia: Il cinema si fa con gli attori, deve simulare scene reali, ma non imitarle. Ecco, io credo nei mestieri. Mettere in scena sé stesso, con il proprio disagio, non mi piace, e forse non dà risultati. Il cinema è finzione ed è giusto farlo fare a professionisti che riuscissero a combinare l'esigenza di realismo con quella di commedia.
Claudio Bisio, perché ha scelto di accettare questo ruolo?
Claudio Bisio: Ho amato molto la sceneggiatura di Si può fare, erano anni che non ne leggevo una così bella. La pagina che mi ha emozionato di più è stata l'ultima, quella in cui si spiega che il film è tratto da una storia vera. Durante la lettura, infatti, mi sembrava di leggere una favola e mi è venuta la pelle d'oca a sapere che invece si trattava di una storia veramente accaduta, che il 'si può fare' è diventato 'si è fatto'. Quindi, ho deciso subito di aderire al progetto. Si sentiva che era un progetto non casuale, ma meditato. Dal punto di vista della recitazione, per me è stata l'esperienza più importante che abbia mai fatto. Il film è venuto in un momento in cui avevo voglia di fare un film che non fosse necessariamente una commedia, quindi diverso rispetto a quello che faccio di solito. Poi il comico che c'è in me ha permesso al film di non cadere nel melò.
Giulio Manfredonia: I comici sono quasi sempre grandi attori e Claudio per me lo è. Aveva tutte le caratteristiche del personaggio che è un grande motivatore, che stimola i ragazzi con cui ha a che fare a dare il meglio, ed è poi un talent scout, che sa guardare nel futuro di questi personaggi. Inoltre è milanese e ha grande sensibilità per temi come quello del lavoro.
Nel film si parla della legge Basaglia, che alla fine degli anni '70 impose la chiusura dei manicomi.
Claudio Bisio: La legge Basaglia ha rivelato in questi trent'anni delle fragilità, delle debolezze, ma è un punto di ritorno. Ci sono questioni di civiltà, come l'aborto o appunto questa legge, dalle quali non si può più tornare indietro. La chiusura di strutture come i manicomi è una base importante. Il film si svolge pochi anni dopo l'applicazione di tale legge e affronta temi ad essa connessi, come per esempio il pericolo di suicidio o il reinserimento nella società. Inoltre, raccontiamo anche degli errori che possono essere compiuti nella gestione di queste situazioni, ma anche dei possibili riscatti.
Il suo ruolo è quello di un sindacalista che viene mandato in una cooperativa di malati mentali. Oggi la figura del sindacalista non sembra vista di buon occhio dai lavoratori. Cosa ne pensa lei?
Claudio Bisio: Oggi sembra acclarato il fatto che il sindacato sia scollato dai lavoratori. I sindacati sono frutto delle lotte operaie dell'800. Per definizione un padrone cercherà sempre di "fregare" i suoi dipendenti ed è giusto che questi cerchino tutela attraverso organismi collettivi. Bisogna però dire che non si tratta di un mestiere, se prima o poi i lavoratori non avranno più necessità di essere rappresentati da un sindacato questi organismi moriranno, ma non credo si arriverà mai a questo e non vedo poi tutto questo scollamento.
Fabio Bonifacci: Il personaggio del sindacalista, interpretato da Bisio, nasce dal desiderio di collocare questa storia negli anni '80. Nello è un personaggio un po' di fantasia e un po' reale, che non fa scelte scontate e in quel periodo non era così comune. In quel momento c'era da una parte entusiasmo per il mercato, dall'altra una sinistra arroccata sulle proprie posizioni che non ammetteva aperture in questo campo. Nello si inventa una terza via, tenta di unire il sociale al mercato, dando un'opportunità a questi 'picchiatelli', un'impresa utopica che però è accaduta davvero. E' una favola, ma è possibile farla diventare realtà.
Il film è ambientato nella Milano degli anni '80. Come avete lavorato per rendere al meglio quel periodo?
Claudio Bisio: Di quegli anni per certi versi tanto vituperati, ho un ricordo bellissimo. E' il periodo in cui ho finito la scuola e ho cominciato a fare il mestiere che faccio ora. Ci siamo divertiti molto a girare Si può fare perché è una sorta di film in costume. A Milano è cambiato tutto rispetto a quegli anni e abbiamo dovuto prestare attenzione a tante cose, dai tram alle pensiline degli autobus.
Anita Caprioli, com'è stato per lei partecipare al film?
Anita Caprioli: Anche per me è stata una bella esperienza, nonostante il mio ruolo sia circoscritto al rapporto tra il mio personaggio, Sara, e quello di Nello, interpretato da Bisio. Sara rappresenta quella parte di donne che negli anni '80 aveva bisogno di affermarsi. Ci siamo divertiti a raccontare le dinamiche che scattavano in situazioni come quelle in cui si viene a trovare la coppia del film, ma se Si può fare ha questa forza pazzesca è merito del lavoro fatto da Giulio con gli attori che interpretano i "matti". Secondo il mio parere infatti, la forza del film sta nell'aver saputo raccontare quella linea sottile che divide la follia dalla non follia, un aspetto che ritroviamo in tutti i protagonisti.
Giovanni Calcagno, lei interpreta uno dei 'picchiatelli' del film. Come ha lavorato sul suo personaggio?
Giovanni Calcagno: E' stato facile scoprire il lato oscuro di questi personaggi. La cosa più interessante di questo progetto era potersi rispecchiare nelle schede di malattia mentale che ci sono state fornite all'inizio e trovarci tracce di quell'oscurità presenti in tutti noi.
Fabio Bonifacci, da dove è nata l'idea della storia?
Fabio Bonifacci: Quando ho letto di questa cooperativa sul giornale è stato amore a prima vista. Per mesi sono andato in giro a raccontare la mia idea alle persone che conoscevo e sia a me che a loro brillavano gli occhi. Così una notte, nel 2002, ho scritto venti pagine di soggetto. Per raccontare lo spirito di questa impresa abbiamo reinventato tutto, studiando a fondo la materia, il disagio mentale, che è molto delicata. Poi siamo passati alla costruzione dei personaggi sulla carta e quindi alla loro traduzione in carne e ossa. In fase di scrittura ci siamo posti il problema dell'equilibrio di toni e per me la stella polare in questo senso è stato il rispetto della materia che avevamo davanti. Il tono di commedia è anche frutto dei giorni passati nelle strutture mediche, perché i malati oltre a trasmettere il loro disagio, trasmettevano anche tanta gioia.