Cinema e tempo: una prospettiva in fieri

Lo spettatore non sa più dove si sia e, nella con-fusione delle coordinate, non sa più nemmeno comprendere se ciò che è dato vedere appartiene all'ordine dell'impressione di realtà oppure è soltanto virtualità e fantasmagorìa, che possono sorgere, oramai, e in modo indistinto, dall'immaginazione dell'artista, da quella dei personaggi e, persino, dalla fruizione spettatoriale. Passato, presente e futuro si fondono e negano ogni distinzione.

Sono molte e diverse le cesure che analisti e studiosi individuano nello sforzo di definire le discrepanze fondamentali che hanno prodotto il passaggio da un primo modo di concepire e fare il cinema - quel cinema classico di cui si parla per il cinquantennio che va dalla nascita alla fine della Seconda Guerra Mondiale - alle nuove visioni e concezioni del mezzo, raccolte sotto l'etichetta di cinema moderno, il quale, peraltro, secondo molte esegesi, rappresenterebbe, ancora oggi, un quid indiviso e indivisibile e così ricco di risorse linguistiche da aver saputo estendere la propria normativa espressiva su buona parte del cinema contemporaneo, di modo che, quest'ultimo, non sarebbe se non emanazione diretta e filiale delle scoperte linguistiche e narrative, produttive ed espressive, del suo predecessore. Noi sappiamo bene che la corrispondenza tra le definizioni schematiche e intellettualistiche anche più persuasive e l'oggetto vivo che si muove sul tapis roulant della Storia rappresenta sempre un problema ermeneutico irrisolvibile; e, difatti, un fenomeno complesso e variegato come la Storia del Cinema non può certo essere imbragato nelle soluzioni di comodo delle definizioni sbrigative - o delle lacerazioni nette - o delle forzature interpretative. Tuttavia, la pratica analitica di osservare un oggetto un po' da lontano, per coglierne non tanto singole occorrenze storiche ma i cambiamenti profondi che hanno modellato lo sviluppo della sua Storia intesa come complesso, si è rivelato, in molti casi, un esercizio utile a rivelare alcune idee guida, utili a comprendere, poi, anche l'epifanìa del singolo fatto, o della circostanza specifica. Quindi, anche le linee sommarie con cui si è soliti, in ambienti fortemente storicistici, demarcare alcune grandi epoche della Storia del Cinema non sono affatto prive di interesse ma, anzi, rispetto a certi specifici argomenti, danno la possibilità di comprendere, nel profondo, la peculiarità di opere che, altrimenti, rischierebbero di apparire, se non vuote di senso, almeno prive di agganci alla realtà generale della prassi produttiva ed espressiva di un certo periodo.

È il caso, senza dubbio, di un film articolato e macchinoso, e oggi non poco indigeribile, come L'anno scorso a Marienbad, diretto da Alain Resnais e sceneggiato da Alain Robbe-Grillet, vincitore del Leone d'oro veneziano nel 1961, ex equo con La notte di MIchelangelo Antonioni. L'opera acquisisce senza dubbio un senso meno esoterico se la si mette in rapporto con quella potente riflessione - cominciata da Gilles Deleuze nei suoi due libri dedicati al Cinema, L'immagine-movimento e L'immagine-tempo -, che, per prima, tentò, agli esordi degli anni Ottanta, di ricostruire la Storia del Cinema a partire dalla rappresentazione che il Cinema stesso aveva fatto, e faceva, del Tempo come coordinata fondamentale d'ogni visione del mondo.
In tal senso, il discorso deleuziano tendeva a dividere la Storia del Cinema in due grandi modi di affrontare il problema: per mezzo della prima maniera, dominata dall'immagine-movimento - forma indiretta di rappresentazione del Tempo -, quest'ultimo trovava espressione lungo narrazioni che, in senso generale, tendevano a rispettare la successione lineare della coordinata temporale. Così, in un periodo che, appunto, tendeva ad esser tutt'uno con i primi cinquant'anni della Storia del Cinema, quasi ogni film sembrava voler rispettare la scansione del Tempo per così dire oggettivo o anche scientifico; il presente si incastonava dentro una fessura che era posta sempre dopo il passato e prima del futuro. Passato, presente e futuro erano sempre perfettamente disgiunti e distinguibili grazie all'ausilio dei due segni di punteggiatura più forti del Cinema: il flashback che, variamente introdotto, dava allo spettatore la meta-comprensione di uno scivolamento dentro un tempo anteriore a quello della narrazione, e il flashforward che, invece, e ancora in virtù di un qualche segnale d'avviso linguistico, trasportava quel medesimo spettatore nel dopo della narrazione stessa, in quel tempo assai più vago del passato e del presente che, da sempre, si chiama futuro. L'osservanza della corretta scansione distintiva dei rapporti reciproci e sequenziali tra presente, passato e futuro conferiva all'intera rappresentazione cinematografica un forte senso di realtà, perché - pur raffinandosi le convenzioni di punteggiatura - tra Cinema e Realtà si manteneva, almeno ad un livello superficiale, un'omologia di interpretazione temporale, così da permettere alle percezioni, alle affezioni e alle azioni, dei personaggi o degli spettatori, di trovare inconfutabile veridicità dentro un tessuto semiotico uniforme, nella misura in cui era supportato dalla stessa identica concezione, lineare e progressiva, della successione temporale. Così, i grandi film di genere hollywoodiano, o le opere inquiete dell'espressionismo tedesco, o gli esperimenti rivoluzionari del primo cinema sovietico o, anche, le pellicole colme di verità del realismo francese tra le due guerre, obbedivano ad un minimo comun denominatore che induceva a pensare le narrazioni e le comunicazioni immerse dentro un fluire ben organizzato del Tempo, in virtù del quale tutto ciò che si diceva o si raccontava sembrava essere presente ricco di passato e carico di futuro; e, come detto, nella perfetta discernibilità degli stadi del tempo, gli avvenimenti raccontati, o le cose percepite, o i sentimenti esperiti, sembravano colmi di una realtà incontestabile proprio perché, tra finzione e reale, sussisteva congruenza di rappresentazione, dal punto di vista delle coordinate spaziali ma, ancor di più, da quello delle coordinate temporali. Insomma, ciò che accomunava Charles Chaplin ed Sergej M. Ejzenštejn, David W. Griffith e F.W. Murnau, John Ford e Jean Renoir, era l'idea di un tempo lineare e progressivo. Non a caso, da tutte queste esperienze scaturì la pratica del montaggio parallelo, che spezzettava la linea temporale in piani paralleli di narrazione pur sempre obbedienti, però, al principio della consequenzialità lineare tra passato, presente e futuro.

Il dopoguerra cambiò le carte in tavola. In primo luogo, gli spazi - che erano soprattutto quelli delle città europee distrutte dalla guerra - cominciarono a diventare sconnessi, rappresentati come luoghi indecifrabili e misteriosi, oramai privi della qualità rassicurante della contiguità, che era stata, invece, il_ leit-motiv_ della rappresentazione dello spazio nel cinema prebellico e che, ancora oggi, è la cifra dominante di tutto il cinema d'intrattenimento. Dato, però, che la realtà è commistione di spazio-tempo, divenne naturale cominciare a ripensare ai modi di rappresentazione del Tempo, oltre che dello spazio. Incominciarono a diffondersi, allora, montaggi che, in modo più o meno esplicito, con-fondevano l'unità sequenziale del Tempo, mescolando le punte di presente alle falde di passato e futuro, in primo luogo eliminando, il più possibile, la punteggiatura di transizione e, di riflesso, tagliando il montaggio senza più preoccuparsi troppo della verosimiglianza spaziale. Con-fondere gli spazi, però, e smettere di introdurre transizioni che permettessero di orientarsi tra le coordinate spazio-temporali di una narrazione, significava, alla lunga, mettere lo spettatore di fronte ad una situazione percettiva nuova e straniante: il fruitore non aveva più strumenti per comprendere appieno il succedersi degli spazi e, di riflesso, finiva per non avere più chiara la linea di successione _dei tempi. Ben presto - a partire dalla metà degli anni Cinquanta, e soprattutto per opera dei nuovi autori che si affacciavano in quegli anni alla produzione del cinema europeo - molte narrazioni presero a non permettere più che lo spettatore potesse capire, in modo oltremodo chiaro, se ciò che si raccontava ad un dato momento fosse, nel contesto della narrazione, _presente, passato o futuro. Il tempo, dunque, si ingarbugliava, si rese indistinto, persino l'opera, e l'autore, non sapevano più ditinguere tra i vari piani temporali, tra le falde di passato e le punte di presente, appunto, o tra le smanìe e le malinconìe del futuro, come, per restare ad un esempio tipicamente italiano, era già vero per molte opere felliniane, da Otto e mezzo ad Amarcord.

In tal senso, L'anno scorso a Marienbadè opera davvero epocale perché, qui, per la prima volta, il discorso sul tempo - divenuto oramai cristallo nel quale si fanno indistinguibili i piani temporali - diventa argomento diretto di narrazione e riflessione. In più, se lo spettatore perde, oltre ai parametri dello spazio, anche quelli che regolano la successione lineare del tempo, accade - e non può non accadere - una sorta di tragedia della fruizione: lo spettatore non sa più dove si sia e, nella con-fusione delle coordinate, non sa più nemmeno comprendere se ciò che è dato vedere appartiene all'ordine dell'impressione di realtà _oppure è soltanto _virtualità e fantasmagorìa, che possono sorgere, oramai, e in modo indistinto, dall'immaginazione dell'artista, da quella dei personaggi e, persino, dalla fruizione spettatoriale. Passato, presente e futuro si fondono e negano ogni distinzione; d'altro canto, la negazione della diversità dei piani temporali si porta con sé la con-fusione definitiva tra reale e virtuale e la mescolanza in cristallo anche di questi due piani. Da questo punto di vista, il film di Resnais è assolutamente esemplare.

Ma l'indistinzione delle qualità e, soprattutto, di quello che potremmo definire il dato di realtà dal dato del puro pensiero, è oramai un fatto acquisito e percorre di sé, variamente modulandosi, l'opera di alcuni tra i maggiori cineasti contemporanei. Basti pensare alla malinconìa ontologica di certe storie di Terence Davies, alle informi traiettorie che compiono i personaggi di Olivier Assayas, al tempo bloccato attorno alle ripetizioni nella grande narrazione di Heimat, agli stridori tra eternità e quotidiano in certi film di Wim Wenders o a quello strano pasticcio d'azione che tona eternamente su se stessa che è il Pulp Fiction di Quentin Tarantino; o ai corto circuiti terrificanti di alcuni film di David Cronenberg. Insomma, la riflessione sul tempo - e la consapevolezza che senza il tempo anche l'azione umana sia destinata a morire - è ossessione sempre più ricorrente del cinema contemporaneo. L'anno scorso a Marienbad, allora, ha avuto il merito di aver disquisito in maniera diretta su un doppio tema - l'immobilizzazione del tempo e la virtualizzazione del reale - che, oggi, pare sempre più all'ordine del giorno.