Recensione Hypnos (2004)

Il regista David Carreras si inserisce con questo "Hypnos" nel solco della nuova, fortunata stagione del thriller/horror spagnolo: il risultato, purtroppo, è la riproposizione di quelli che già sono diventati cliché, unita a uno script debole e a una regia scolastica e senza personalità.

Cinema che non 'ipnotizza'

Beatriz è una giovane e promettente psichiatra, che nasconde però un qualche oscuro male dell'anima: la donna ha infatti problemi di depressione, è attratta dall'idea della morte, e assume quotidianamente psicofarmaci. Quando Beatriz viene assunta nella prestigiosa clinica del dottor Sanchez Blanch, una struttura completamente isolata sita in riva al mare, i suoi problemi sembrano acuirsi: in particolare, la donna è turbata dall'incontro con una paziente bambina, finora chiusa in un mutismo perenne, che per qualche motivo sembra volersi aprire solo con lei. Quando la piccola viene trovata morta, con le vene dei polsi tagliati, e un altro enigmatico paziente rivela a Beatriz che "non è stato un suicidio", la giovane precipita in un vero e proprio incubo, mentre lentamente la sua concezione del tempo e dello spazio si altera, come se una qualche forza esterna stesse cercando di controllare la sua mente.

Il regista David Carreras Solè, proveniente dalla televisione e qui al suo terzo lungometraggio, si inserisce con questo Hypnos nel solco della nuova, fortunata stagione del thriller/horror spagnolo: un "movimento" che ha portato gli ottimi lavori di un regista intelligente come Alejandro Amenabar, ma anche film poco originali, di carattere derivativo e scarsa incisività, come quelli del furbo Jaume Balaguerò (regista, si ricordi, di Nameless - Entità nascosta e Darkness). Con questo lavoro, Carreras non si discosta purtroppo da quelli che sembrano già diventati dei cliché del nuovo horror iberico, a sua volta presi di peso dalle recenti ghost story americane: una regia effettistica con qualche momento da videoclip, spaventi gratuiti e preconfezionati ottenuti soprattutto grazie a un furbo uso del sonoro, una fotografia in genere piuttosto curata, ma di una cura che è "slegata" dalle necessità narrative, gratuita nel suo voler colpire l'occhio. A questi ingredienti, il regista aggiunge delle pretese da trattato psicologico del tutto sproporzionate rispetto alla dimensione del film, e una componente onirica, di costante dialettica tra realtà e allucinazione, che sembra voler rifare il verso al David Lynch di Mulholland Drive o all'horror coreano Two Sisters: peccato che, come si sarà intuito, Carreras non abbia neanche un decimo della visionarietà e della forza espressiva di un Lynch, o della padronanza della messa in scena e dei meccanismi della paura mostrati da Kim Ji Woon. Quello che resta, così, è un prodotto di genere anonimo, con una regia scolastica e uno script prevedibile (sfidiamo chiunque a non indovinarne gli sviluppi dopo pochi minuti), che presenta l'aggravante di una notevole pretenziosità.

L'unico aspetto davvero curato del film è, come si diceva, la fotografia, che fa uso di una predominante di bianco nelle scene diurne in interni (espediente che, sommato all'essenzialità delle scenografie, vorrebbe forse restituire un senso di "astrazione" ai corridoi e alle stanze della clinica, ma che alla lunga risulta solo stucchevole), e colora le sequenze notturne con tonalità che vanno dalla "freddezza" del blu e del verde al carattere "minaccioso" del rosso in alcune sequenze topiche. Ma, come già detto, si tratta di espedienti cromatici in fondo fini a sé stessi, non giustificati da un clima che li integri all'interno di un corpo filmico coerente: a giocare con i colori, insomma, sono capaci tutti, altro paio di maniche è girare un film la cui estetica sia organica a quello che viene narrato, e a come viene narrato.
Gli attori si adeguano stancamente ai dettami (e alla prevedibilità) di uno script dei cui limiti si è già detto: non sfigura Feodor Atkine nell'enigmatico ruolo del dottor Blanch, mentre senza infamia e senza lode risultano gli altri, a cominciare dalla poco incisiva protagonista Cristina Brondo.

Sul particolare momento attraversato del genere horror si è detto e scritto molto, così come sul "cortocircuito" generato da alcune filmografie (quelle asiatiche in primis) che sempre più tendono a reiterare i loro topoi, spesso mescolandosi (vedi i casi di Hideo Nakata e Takashi Shimizu), con la "fagocitatrice" Hollywood, in cronica crisi di idee sul genere. E' da dire che pellicole come questa, in questo quadro, non fanno ben sperare: se ad oriente si sta vivendo dunque un momento particolare, probabilmente "di passaggio", e ad Hollywood è buio pesto (tranne per qualche sporadica sorpresa), l'horror europeo non accenna a rialzare la testa, ivi compresa questa new wave spagnola che, almeno finora, non può che lasciare perplessi gli appassionati. Ma chissà, in fondo potremmo anche essere smentiti nell'immediato futuro, magari da un ipotetico "nuovo Amenabar": non sarebbe la prima volta, e certamente, in questo caso, non sarebbe neanche sgradito.

Movieplayer.it

2.0/5