"Tu non potresti fare tante stramberie se io non stessi su questa sedia!" "Ma ci stai, Blanche! Ci stai in quella sedia!"
Sono già trascorsi undici minuti dall'inizio del film quando, sullo schermo, compaiono i titoli di testa di Che fine ha fatto Baby Jane?. Fino ad allora, un prologo insolitamente lungo ci ha illustrato la folgorante quanto effimera popolarità di Baby Jane Hudson, bambina-prodigio dello show business destinata a un rapido declino una volta raggiunta l'età adulta, in parallelo con la parabola ascendente di sua sorella Blanche, che negli anni Trenta diventa una star di Hollywood. Ma anche quando la narrazione si sposta al giorno d'oggi, è ancora il passato a catalizzare la nostra attenzione: in TV viene trasmesso Sadie McKee, una pellicola risalente a quasi trent'anni prima, e la Blanche che ci troviamo a osservare ha il volto di una Joan Crawford non ancora trentenne. È solo dopo diciassette minuti che le due protagoniste, introdotte dalle loro 'versioni' più giovani, fanno finalmente il proprio ingresso nel film.
La scelta inusuale del regista e produttore Robert Aldrich è emblematica di due aspetti-chiave relativi a Che fine ha fatto Baby Jane?. Da un punto di vista tematico, la dicotomia fra presente e passato: l'incapacità di obliterare quest'ultimo produce infatti quel corto circuito che rende impossibile alle sorelle Hudson mantenere in equilibrio la loro esistenza. Dal lato del puro spettacolo, invece, Aldrich fa montare quanto più possibile l'attesa per le due dive che qui, con un'accoppiata inedita, si dividono la scena: prima la Blanche di Joan Crawford, che si crogiola nella nostalgia per la sua "epoca d'oro" (corrispondente alla Golden Age del cinema hollywoodiano stesso), e subito dopo la Jane di Bette Davis, sepolta dietro una grottesca maschera di trucco su cui si allarga un ghigno dai contorni mostruosi.
Robert Aldrich e la nascita dello psycho-biddy
È il 31 ottobre 1962 quando Che fine ha fatto Baby Jane? fa il suo esordio in America nei cinema della Warner Bros, che accetta di distribuirlo, ma non ha previsto le proporzioni di un successo tanto ampio. Diretto da Robert Aldrich, regista poliedrico in grado di passare dal western al dramma bellico al mélo, e tratto dall'omonimo romanzo di Henry Farrell, adattato da Lukas Heller (da lì in poi sceneggiatore di fiducia di Aldrich), Che fine ha fatto Baby Jane? è la torbida storia del rapporto fra due sorelle di mezza età: Blanche, costretta su una sedia a rotelle in seguito a un drammatico incidente che le ha spezzato la spina dorsale e ha distrutto la sua carriera d'attrice; e Jane, che vive insieme a lei covando un furioso rancore e tormentandola con gesti macabri. La decisione di Blanche di mettere in vendita la villa di famiglia, con l'intento di far internare la sorella in un istituto psichiatrico, è la molla che darà libero sfogo alla follia di Jane, innescando un crudele gioco al massacro.
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Ad attrarre gli spettatori nelle sale, due anni dopo il fenomeno di Psycho (e la sua esplicita rappresentazione della violenza), non è solo la promessa di un'opera a tinte granguignolesche, caratterizzata da una claustrofobica atmosfera gotica, ma un racconto la cui natura orrorifica si mescola a smaccati toni camp. Una commistione decisamente all'avanguardia, nella Hollywood dei primi anni Sessanta, e che da lì in poi avrebbe fatto scuola, inaugurando il cosiddetto filone psycho-biddy: un peculiare sottogenere del thriller psicologico, caratterizzato dalla ruvida brutalità dei B-movie e dalla predilezione per attrici ultracinquantenni che gli studios stavano relegando ai margini dell'industria. Ed è questa, non a caso, la condizione in cui si trovano Bette Davis e Joan Crawford quando accettano di farsi ingaggiare da Robert Aldrich: due icone della Hollywood classica le cui parabole professionali, dopo decenni trascorsi sulla cresta dell'onda, sono entrate in una fase di declino.
Bette Davis e Joan Crawford, fra rivalità e rivincita
Parlare di Che fine ha fatto Baby Jane? significa inesorabilmente parlare delle sue protagoniste; del resto, l'inossidabile notorietà del film è legata a doppio filo a quella delle tensioni fra le due dive. Dalle (presunte) scintille sul set al famigerato sgarbo durante la cerimonia degli Oscar, quando la Crawford ritirerà la statuetta al posto di Anne Bancroft nella categoria in cui era candidata anche la Davis, la rivalità fra le due attrici avrebbe assunto un'aura leggendaria, tanto da ispirare nel 2017 la serie TV Feud: Bette and Joan. Ma se Che fine ha fatto Baby Jane? si guadagna in breve tempo lo statuto di cult, è soprattutto grazie a loro: Joan Crawford, già diretta da Aldrich sei anni prima in Foglie d'autunno, mette la propria espressività al servizio di un ruolo di 'vittima', mentre nei panni della sua carnefice Bette Davis offre una performance caricata al massimo, in cui gli istrionismi e gli sguardi di fuoco contribuiscono a disegnare lo spaventoso ritratto di una delle più memorabili villain del grande schermo.
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La sua Baby Jane Hudson, tormentata dal ricordo di una fugace celebrità e da un senso di colpa che si traduce nell'odio furibondo per la sorella, è quasi una declinazione in chiave horror della Norma Desmond di Viale del tramonto, e rimarrà uno dei personaggi-simbolo della sterminata carriera di Bette Davis, ricompensata con la sua decima nomination all'Oscar (mentre il film ottiene il premio per i costumi di Norma Koch). Appena due anni più tardi, Robert Aldrich tenterà di ripetere il 'miracolo' con un altro thriller da antologia, Piano... piano, dolce Carlotta, riunendo la medesima coppia di attrici; in quel caso, tuttavia, la Crawford abbandonerà il set a riprese già avviate e sarà rimpiazzata da Olivia de Havilland. Cartina al tornasole di certe tendenze ageiste e misogine di Hollywood, qui esasperate in senso parossistico al punto di rovesciarle a vantaggio delle due protagoniste, Che fine ha fatto Baby Jane? lascerà un segno profondissimo nell'immaginario collettivo: la scommessa vinta da parte di un film che, alla sua uscita, non somiglia a nient'altro, e che proprio per questo riuscirà a superare in maniera formidabile la prova del tempo.