Oramai è chiaro che in Italia si provi ad interiorizzare la serialità inglese e americana. Lo fanno ovviamente le piattaforme, per prima Netflix, in quanto devono realizzare prodotti che, rispetto agli altri network, vengono automaticamente distribuiti nei cataloghi di tutto il mondo. Le serie in costume, per esempio, sono un genere a sé, con un linguaggio che gli autori provano a sfruttare tanto per il pubblico locale, quanto e soprattutto per l'estero, in questo caso grazie al fascino della Storia d'Italia: così, dopo Luna Nera, Luna Park, La legge di Lidia Poët, Supersex, eccoci a raccontarvi nella nostra recensione un'altra produzione Netflix Original, Briganti, arrivata in piattaforma.
Una trama troppo... italiana
Siamo nel 1862 nel Sud Italia, dopo Garibaldi e l'Unità e una guerra combattuta non si sa bene perché, e la gente del meridione povera e affamata. Mentre si tramanda oralmente la leggenda del Tesoro del Sud, l'Oro delle Camicie Rosse di Garibaldi, Filomena (Michela De Rossi), una donna determinata di umili origini sposata con un ricco possidente, sfugge ad un matrimonio possessivo e violento e si rifugia nei boschi, dove trova riparo presso una compagnia di briganti, i Monaco. Parallelamente sulle sue tracce non ci sono solo i Piemontesi che stanno occupando il Regno d'Italia e le autorità, ma anche Sparviero (Marlon Joubert, già apprezzata new entry di Suburræterna sulla piattaforma), un cacciatore di taglie impavido e guascone. Inizia così una guerra interna tra briganti e tra ribelli e Stato per recuperare il leggendario Oro e per ritagliarsi il proprio posto nel neonato Regno.
Figure leggendarie
I Briganti della serie Netflix, prodotta da Fabula Pictures in associazione con Los Hermanos, sono liberamente ispirati a figure maschili e femminili realmente esistite, re-immaginate per l'occasione da parte dei GRAMS*, il collettivo composto dai cinque giovani autori Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol mentre alla regia troviamo Steve Saint Leger (Vikings, Vikings: Valhalla, Barbarians), lo stesso Antonio Le Fosse (Baby), e Nicola Sorcinelli (Balcanica), che ne ha curato anche la supervisione artistica.
Nonostante la co-produzione internazionale che guarda all'estero, il risultato è "troppo italiano": si vuole mitizzare un certo tipo di figure ma senza gli strumenti giusti e necessari, come fatto ad esempio di recente su Apple TV+ con Le avventure senza capo né coda di Dick Turpin o su Disney+ con Nell - Rinnegata. È apprezzabile il lavoro in fase di scrittura che prova a mescolare e confondere la Storia alla leggenda, il dramma alla commedia, ma il risultato è un pasticcio non ben amalgamato, soprattutto perché non tutte le dinamiche della trama appaiono chiarissime, specialmente per chi non mastica abitualmente il suddetto periodo storico. Questo è chiaro quasi fin dall'inizio, come nei gialli in cui un indizio nell'incipit tradisce le intenzioni dell'autore: il primo episodio comincia con una sigla vecchio stile che mixa i volti dei protagonisti, senza però indicare i nomi degli interpreti, e con il titolo che compare solo alla fine: una sorta di rough cut. Un sensazione che sembra percorrere l'intera serie anche nelle puntate successive.
Poi, grande attenzione è data alle figure femminili: non solo Filomena, guardata con sospetto dai Monaco perché arricchitasi grazie al marito, ma anche la sua controparte brigante: Ciccilla (Ivana Lotito, già vista in Gomorra, Romulus, Christian), indipendente e altrettanto determinata a capo della banda dei Monaco insieme al compagno Pietro (Orlando Cinque); e Michelina De Cesare (Matilda Lutz), la donna simbolo della lotta per la libertà, intrisa di mistero e fascino (tanto che porta un velo a coprirle il volto), che leggenda vuole sia destinata a liberare il Sud dagli oppressori, e per questo indebolita a tutti i costi dal generale Fumel (Pietro Micci), spietato rappresentante del neonato Regno d'Italia. Tuttavia, il risultato è ancora una volta parziale ed insoddisfacente, anche per la recitazione spesso troppo impostata degli interpreti, vittima anche dell'accento posticcio. Altrettanta cura è data ai costumi, al trucco, alle scenografie, con richiami al western, a Sergio Leone e ai grandi spazi aperti della pianura americana, anche se non arrivano ai livelli di altre produzioni come la Torino storica ricostruita di Lidia Poët. Nel voler essere rispettosa della Storia, ma comunque ammiccante verso le sfumature moderne per tematiche e dinamiche, la serie non trova una propria identità e una propria ragion d'essere all'interno dell'offerta attuale.
Nessuno si salva da solo
In questa lotta senza quartiere, tanto tra briganti quanto contro gli oppressori, si prova ad inserire il fascino della serie d'avventura basata sulla caccia al tesoro, che altrettanto ben funziona all'estero. In questo caso quello dell'oro sottratto a Palermo e diretto in Piemonte, la cui mappa era stata affidata al marito di Filomena. Quindi, non bastano i protagonisti giovani (come il sempre più affermato Federico Ielapi), o le morti inaspettate e i colpi di scena, a ricordarci quanto quella di Briganti sia una storia in parte vera e necessariamente truce e spietata. E non basta alla fine il fascino di Giuseppe Schiavone alias Sparviero, come il fascino della banda dei briganti che, diventando gli anti-eroi del racconto, provano a salvare una serie televisiva che sembra più una fiction.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Briganti felici che Netflix Italia provi a sperimentare e sfruttare anche il period drama, anche se appare chiaro oramai come non sia un nostro punto di forza. Allo stesso tempo dispiace che il mix di storia e leggenda messo in scena, anche attraverso personaggi non a 360° resti sullo schermo e non arrivi allo spettatore, per una certa confusione nell’esposizione, come se fossimo di fronte ad un prodotto non finito e finalizzato.
Perché ci piace
- L’idea di raccontare un periodo storico di cui di solito non si parla.
- L’ispirazione dei western e delle serie d’avventura e di caccia al tesoro.
- I personaggi femminili…
Cosa non va
- …che finiscono però per essere un po’ monocorde come gli altri.
- Una recitazione troppo impostata.
- La Storia e la leggenda si mescolano, ma in modo confuso.
- Fin dalla sigla, la serie sembra una fiction work in progress.