Brandy Hellville, Eva Orner racconta l'inferno del fast fashion dietro il brand italiano

L'intervista alla regista premio Oscar che in un documentario svela il lato oscuro del marchio di abbigliamento Brandy Melville, tra razzismo, manodopera sottopagata e danni all'ambiente. In esclusiva su Sky Documentaries il 14 settembre alle 21.15.

Un'immagine di Brandy Hellville – L'inferno del fast fashion

"Buongiorno!". Eva Orner esordisce parlando in italiano dall'altra parte della cornetta, a Los Angeles. "Studio italiano, faccio tre lezioni a settimana. Ma i miei amici dicono che il mio accento è come quello di Stanlio e Ollio". La regista e produttrice australiana premio Oscar nel 2008 per Taxi on the Dark Side è tornata dietro la macchina da presa per un altro documentario, Brandy Hellville - L'inferno del fast fashion - in esclusiva su Sky Documentaries il 14 settembre alle 21.15, in streaming su Now e disponibile on demand - in cui mette in luce i danni all'ambiente e il sistema di sfruttamento all'interno del marchio di abbigliamento per adolescenti Brandy Melville.

Fast fashion e mancanza di sostenibilità nella moda

Brandy Hellville Intervista Eva Orne
Eva Orner

All'inizio degli anni 2010 era pressoché impossibile non essere entrati, almeno una volta, in uno negozio Brandy Melville. Possedere uno dei loro capi, sebbene estremamente anonimi, significava essere alla moda. Nonostante lo slogan "One size fitz all". Una sola taglia per tutti che, ovviamente, promuoveva standard di bellezza impossibili. Fondato nel 1980 in Italia da Stephan e Silvio Marsan, Brandy Melville è diventato un marchio globale con un fatturato, nel 2023, di 212,5 milioni di dollari.

Nel 2021 la giornalista investigativa Katy Taylor ha scritto un articolo Brandy Melville employees describe racism, Hitler memes, and sexual exploitation at the 'evil' cult teen brand in cui metteva in luce le pratiche scorrette dietro al marchio di moda. Tre anni dopo Eva Orner ha raccontato quella storia in Brandy Hellville - L'inferno del fast fashion partendo da un bisogno personale. "Volevo fare un film sulla fast fashion. Dieci anni fa, quando ho scoperto i problemi con l'industria della moda, tra sfruttamento, abusi, impatto ambientale, ho pensato: 'Ok, amo la moda, farò delle ricerche'", ricorda la regista.

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Gli effetti del fast fashion in Ghana

"Ho iniziato ad acquistare quelli che pensavo fossero marchi sostenibili. Poi ho scoperto il greenwashing e che non esiste una vera sostenibilità nella moda", prosegue Eva Orner. "Non ci sono regolamenti e spesso non sei affatto sostenibile, stai solo usando cotone biologico. È tutto molto opaco. Sono rimasta piuttosto scioccata dal fatto che quello che stavo comprando diceva di essere sostenibile, ma veniva comunque prodotto in fabbriche in Bangladesh, Vietnam o Cina. E non sai se i lavoratori vengono pagati, non conosci le normative ambientali a cui la fabbrica aderisce. Ho pensato: 'Se non riesco a capire come acquistare bene, come potrà farlo chiunque altro?'. Volevo fare un documentario, ma devi avere una bella storia. Ne stavo parlando con i produttori Simon and Jonathan Chinn che sono tornati da me con l'articolo di Kate Taylor su Brandy Melville."

Un'azienda italiana presente in tutto il mondo con novanta punti vendita di cui trenta solo negli Stati Uniti. "È follemente popolare negli Stati Uniti, in Europa e in Australia. Le ragazze lo adorano. Tutte le mie amiche con figlie adolescenti comprano i loro vestiti", sottolinea la regista. "E ciò che ho trovato particolarmente scioccante è che era tutto su Internet, e non aveva fatto alcuna differenza. Così ho pensato: 'Raccontiamo questa storia'. Nel documentario si parla anche delle fabbriche di Prato e in Cina, andiamo in Ghana e guardiamo l'impatto della fast fashion nel Paese. È stato un ottimo punto di partenza per mostrare un'azienda super popolare che, nonostante sia stata esposta, non si è nemmeno scusata. La maggior parte delle aziende quando viene beccata dice: 'Ci dispiace, cambieremo'. Brandy Melville semplicemente disattiva i commenti su Instagram e continua. Non hanno mai riconosciuto o chiesto scusa per nulla. E non hanno mai cambiato nulla di ciò che fanno".

Un consumo più consapevole

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Una delle dipendenti di Brandy Melville

Durante un passaggio iniziale di Brandy Hellville - L'inferno del fast fashion viene affermato che la moda è identità. Ma la fast fashion cosa dice di noi come società? "Quando eravamo bambini, non avevamo molti vestiti. Quando andavo a scuola in Australia indossavamo un'uniforme. E andare a fare shopping era davvero noioso. Ricordo che mia madre mi trascinava quando avevo bisogno di abiti nuovi. Oggi, a causa di Internet e dei social media, i bambini e gli adolescenti ne sono ossessionati. Passano il tempo a scorrere sullo schermo del telefono. Tutto è follemente economico. E solo cliccando su un pulsante puoi acquistare qualcosa che è perfettamente su misura per il tuo stile grazie all'algoritmo. È troppo facile", riflette Eva Orner

"E così all'improvviso i nostri armadi sono esplosi. Non abbiamo bisogno di cinquanta magliette. Le indossiamo un paio di volte e dato che sono di cattiva qualità le buttiamo via. Ma c'è questa costante necessità di apparire sempre diversi, sempre al meglio, di scattare una foto e di pubblicarla sui social media. Ci sono fantastiche innovazioni nella tecnologia, aziende straordinarie che adottano il riciclaggio, il vintage e la rivendita dei vestiti online. Ma alla fine della giornata, se tutti comprassimo di meno, cambierebbe tutto".

Quanto impatto può avere un film?

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Una delle immagini usate per pubblicizzare il brand

Se da un lato è vero che i social media hanno aiutato ad amplificare il successo del brand, specie tra le ragazze più giovani, è anche vero che una maggiore consapevolezza della Generazione Z in fatto di inclusione e body positivity passa anche traverso gli smartphone. Dopo l'uscita di Brandy Hellville - L'inferno del fast fashion, Eva Orner ha notato un cambio di rotta? "Molte persone lo hanno visto. Negli Stati Uniti era su HBO Max ed è stato al numero uno per tre settimane e mezza, il che è una cifra enorme per un documentario. Ha avuto una forte eco su TikTok, Instagram e sui social media. Ma qual è stato l'impatto? Ci sono ancora file fuori dai negozi Brandy Melville in tutto il mondo. E le persone continuano a postare post sul brand ogni giorno", sottolinea la regista.

"Non ho mai capito il fascino di Brandy Melville. Sono magliette e gonne non particolarmente originali. Puoi trovare esattamente la stessa cosa in un milione di altri posti. Ma in qualche modo c'è questo culto della ragazza cool della California e le persone amano i loro vestiti. E il punto è: 'Quanto impatto può avere davvero un film?'", prosegue Orner.

"Sta alle persone che lo guardano decidere cosa vogliono fare. Tutto quello che puoi fare è provare a istruirle, condividere storie, fare rivelazioni e sperare che le cambierà. Ma la stragrande maggioranza delle persone acquista fast fashion perché è economica. Come fai a impedire a qualcuno di acquistare una maglietta che costa 2 dollari? È una battaglia in salita. E parte del problema è l'industria della moda che è in debito con gli inserzionisti. È una delle industrie più grandi al mondo. Penso dia lavoro a una persona su quattro sul pianeta. La maggior parte di loro sono donne, sfruttate e abusate. E molti dei proprietari delle grandi aziende di moda sono tra le persone più ricche del mondo. E per lo più uomini. È un'industria in rovina".

Le testimonianze

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Una delle ex impiegate di Brandy Melville che testimonia nel documentario

A rendere Brandy Melville il brand di successo che è diventato hanno contribuito anche migliaia di ragazze che, ogni giorno, postavano loro immagini con gli outfit del brand sui vari social. Molte di loro sono state reclutate per diventare modelle o commesse dei vari punti vendita. Ragazze magrissime e bellissime che rispondevano alla perfezione agli standard del suo fondatore. Ragazze bianche con i capelli biondi o rossi. Non c'era spazio per altre etnie se non nei magazzini, nascoste allo sguardo dei clienti.

"Ho fatto documentari sui rifugiati e sulle zone di guerra. E sono rimasta così scioccata quando ho iniziato a lavorare su Brandy Hellville. È stato il più difficile. La maggior parte di loro non voleva mostrare il proprio volto o rivelare la propria identità. Ho capito e rispettato totalmente il perché. Avevano paura. Stavano iniziando la loro carriera e sarebbero state in televisione per sempre su un servizio di streaming a livello globale. E avevano anche paura dei dirigenti di Brandy Melville, Stefan e Jesse, degli uomini pericolosi", racconta la regista.

"Penso siano delle vere e proprie eroine. Dire la verità è la cosa più importante che tu possa fare. Ho così tanto rispetto per loro. Senza di loro non avremmo avuto questa storia. Spero incoraggi molte altre donne. La cosa davvero interessante è stata quando il film è uscito, ho ricevuto centinaia di messaggi e mail da altre giovani donne che dicevano: 'Ho una storia da raccontarti'. Ho detto loro che potevano condividerla e pubblicarla sui social media. C'è potere nelle parole".

Stephan Marsan, il fondatore "fantasma"

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Stephan Marsan, il fondatore del brand

Quello che appare chiaro guardando Brandy Hellville - L'inferno del fast fashion è che il suo fondatore, Stephan Marsan, è come un fantasma. Un uomo che è riuscito a creare un impero attraverso lo sfruttamento di giovani ragazze e un modo di fare affari poco trasparente. Senza contare la quantità di elementi riprovevoli che vengono a galla grazie al documentario.

"Ci sono letteralmente tre o quattro foto di lui su Internet. Non ha mai fatto un'intervista. Non parla con nessuno. È inquietante. Mi sento molto a mio agio nel dire che è una persona terribile" ammette Eva Orner. "Pratica essenzialmente attività criminali. Non gli piacciono le tasse, sfrutta le giovani donne, è antisemita e razzista. Vive negli Stati Uniti e credo che dovrebbero fare un'indagine su di lui. Le sue pratiche commerciali sono spaventose. Dico sempre che è un po' come Donald Trump. Se lo ignori, in un certo senso, scompare. Riesce a farla franca".