Recensione Amore che vieni, amore che vai (2007)

Da un romanzo di Fabrizio De André e Cristiano Gennari, un deludente esempio di noir italiano, con una sceneggiatura carente e un clima forzatamente grottesco, inadeguato al tipo di storia narrata.

Bocca di Rosa non abita qui

Tre personaggi legati da un sottile filo rosso: Carlo, un "pappone per caso" giovanissimo e sognatore, col vizio di immischiarsi in faccende più grandi di lui; Bernard, un contrabbandiere ex-partigiano ed ex-anarchico, ora appartenente alla malavita marsigliese; Salvatore, un pastore sardo membro dell'anonima sequestri con alle spalle cinque anni di carcere. I tre si incontrano nella Genova del 1963, tra locali notturni e vicoli popolati da prostitute ed esemplari vari di umanità allo sbando, mettendo a punto un colpo destinato a cambiare per sempre le loro vite. Ma le profonde differenze tra loro, l'amore e il destino, faranno sì che le cose vadano molto diversamente dal previsto.

Questo Amore che vieni, amore che vai è l'esordio nel lungometraggio del regista di origini televisive Daniele Costantini, ispirato al romanzo di Fabrizio De André e Cristiano Gennari Un destino ridicolo. Un progetto che, stando a quanto dichiarato dal giovane regista, covava nella sua mente già da poco tempo dopo l'uscita del romanzo (che è datato 1997) e che aspira a far respirare, nell'ambientazione, nei personaggi e nelle loro vicende, l'atmosfera delle storie raccontate dal cantautore genovese, gli odori e il clima della sua città e di quei personaggi borderline così pieni di umanità a cui le sue canzoni ci hanno abituato. L'ambizione, purtroppo, si scontra con uno script povero e di scarsa presa emotiva, approssimativo nella gestione degli snodi narrativi e assolutamente insufficiente nella caratterizzazione dei personaggi: le tre prostitute in particolare ("tipo" umano da sempre centrale nelle storie del cantautore), appaiono mal descritte, stereotipate quando non caricaturali; così come caricaturale all'ennesima potenza è il personaggio di Carlo, tutto tic e mossette, assolutamente inadeguato al tipo di storia narrata e poco aiutata dall'interpretazione manieristica e costantemente sopra le righe di Fausto Paravidino.

Non mancano nella sceneggiatura neanche le incongruenze, i personaggi buttati lì e tralasciati per gran parte del film, gli improvvisi e ingiustificati cambi di registro (vedi l'esplosione di violenza di Carlo): ma più in generale è il clima che si respira nel film a non convincere, un grottesco forzato, poco in linea con la storia narrata, mentre se da una parte l'evento principale (il colpo progettato dai tre uomini) scivola addosso allo spettatore senza provocare interesse, dall'altra il "contorno", l'universo umano sul cui sfondo la vicenda si dipana, non brilla certo per credibilità. Qualche pregio si può trovare soltanto nelle convincenti scenografie della Genova notturna, nei vicoli e nei locali illuminati dalle luci al neon, in una fotografia anche superiore alla media delle odierne uscite italiane. Nota di merito anche per il commento sonoro di Nicola Piovani, in gran parte sprecato in un film come questo, mentre il brano di De André che dà il titolo al film ha il solo effetto, nella scena in cui viene utilizzato, di far avvertire un fastidioso didascalismo di fondo (ed è curioso come fosse proprio questo l'effetto che il regista, per sua esplicita ammissione, voleva evitare). Non ci si può neanche accanire più di tanto sul cast, in cui al già citato Paravidino si aggiungono tra gli altri Donatella Finocchiaro, Tosca D'Aquino e la simpatica Agostina Belli, visto che la sceneggiatura non offre caratterizzazioni tali da dare grande spazio agli interpreti.

Un film che rappresenta dunque una delusione abbastanza cocente, specie se si pensa alle premesse e al carattere "alto" del materiale di partenza, nonché alla possibilità, malamente sprecata, di offrire al pubblico italiano un prodotto di sicura presa ma al contempo diverso dalla media del cinema di cassetta nostrano: un'opera in cui la poesia di uno dei più importanti personaggi della cultura popolare italiana si sposasse a una riscoperta del "genere" e del piacere, in sé, di narrare. Peccato.

Movieplayer.it

2.0/5