Black Mirror 4, Black Museum: i deliri dell’incoscienza

Frammentato e pieno del solito cinismo, il sesto episodio della quarta stagione esplora tre folli derive legate all'esportazione della coscienza. Il tutto raccontato all'interno di un teatro degli orrori che simboleggia un tributo autoreferenziale alla serie ideata da Charlie Brooker.

Black Mirror: un'immagine dell'episodio Black Museum
Black Mirror: un'immagine dell'episodio Black Museum

Specchi rotti dentro specchi rotti, riflessi deformi sopra riflessi deformi, schegge tra le schegge. E altro sangue pronto ad essere versato facendosi male con l'ennesimo episodio di Black Mirror. Abile nel ferirci anche in assenza di un corpo perché tutto giocato sul nostro software personale (la coscienza), Black Museum chiude la quarta stagione di Black Mirror con un episodio-matrioska, un contenitore narrativo che ospita dentro di sé tre storie solo in apparenza slegate ma unite dall'ossessione dell'Io esportabile. Come possiamo traslare sensazioni altrove? È giusto ospitare qualcun altro dentro di noi? Che senso ha sopravviverci sotto forma di surrogati? Charlie Brooker risponde con atroci paradossi ed esasperazioni perfettamente credibili nella sua asettica e disperata distopia. Questa volta il teatro degli orrori (e degli errori) è il Black Museum, museo del crimine dove ogni visitatore può conoscere storie, deliri e misfatti di tanti oggetti del Male. Il tutto approfondito dai racconti del suo appassionato custode-fondatore Rolo Hayenes, ormai rimasto a corto di clienti. Sì, perché per godere dei macabri artefatti del museo nero bisogna spingersi in un luogo assai dimenticato e scendere a patti con le zone oscure della propria curiosità.

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Mosso da questi dubbi, Black Museum ci è parso un buon episodio dello show (non memorabile ma nemmeno deludente), che rimarrà impresso soprattutto per la sua natura autocelebrativa. Infatti, all'interno del museo, sono presenti tantissimi oggetti riferiti ad altri episodi della serie, piccoli tributi disseminati qua e là come tributo alla serie più inquietante dei nostri anni Dieci. Tra api assassine, fumetti e tablet scheggiati ormai familiari, eccoci entrare in questo strambo luogo in punta di piedi, seguendo i passi della giovane Nish, pronta a scoprire il lato macabro della testardaggine umana, pronta a tagliarsi con l'ennesima scheggia dell'ormai celebre specchio nero.

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Black Mirror: Letitia Wright in una scena dell'episodio Black Museum
Black Mirror: Letitia Wright in una scena dell'episodio Black Museum

Il miraggio dell'empatia

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Si parte sempre dalle migliori intenzioni, quasi mai da puro e semplice desiderio di progresso, ma da un'incapacità, da un rifiuto. Ad esempio arrendersi all'ineluttabilità della morte e del dolore. Si va a finire sempre lì, invischiati dentro storie di squallore e di follia. La parabola discendente di Black Mirror tocca tutti e tre i racconti di Black Museum, contraddistinti dalla voglia di esportare altrove sensazioni, dolori, piaceri e intere coscienze. Il primo episodio, senza dubbio il più crudele ed efficace, ci porta dentro le sinapsi di un dottore che decide di impiantare nel suo cervello un dispositivo in grado di percepire il dolore dei suoi pazienti. Quello che nasce come un incredibile e salvifico metodo per la salute dei pazienti, si rivela presto una fonte di dipendenza, dando vita ad un essere affamato di sofferenze altrui. Sintetico ma scrupoloso nel mettere in scena l'evoluzione del dottor Peter Dawson, Black Museum sembra delineare la nascita di un perfetto antagonista da cinecomic, di un'aberrazione fisica ma soprattutto etica e deontologica, mostrandoci la coscienza sporca di un uomo che spreca un'incredibile empatia pur di soddisfare il suo egoismo. Ancora una volta il cinismo di Brooker si intrufola nell'egomania umana, incapace di anteporre gli interessi altrui ai propri più beceri e bassi piaceri. Nella distopia di Black Mirror l'empatia è davvero merce rara, un dono che nessuna tecnologia sembra capace di replicare.

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Voyeurismo crudele

Black Mirror: Douglas Hodge in una scena dell'episodio Black Museum
Black Mirror: Douglas Hodge in una scena dell'episodio Black Museum

Non è un paese per empatici, dunque. Ce lo confermano anche gli altri due racconti dell'episodio dove conosciamo le tristi vicende di un marito che decide di installare dentro di sé la coscienza di una moglie ormai in coma da troppo tempo e la traumatica esperienza post-mortem di un uomo condannato a morte. Entrambe le storie svelano senza alcuna pietà il vuoto relazionale a cui siamo condannati quando tentiamo di alterare il naturale corso degli eventi. Tentare di far entrare qualcuno dentro di noi per beffare ogni distacco definitivo o cercare di resistere alla morte sono scelte diaboliche, forzature drastiche pronte a svelare tante mostruosità umane. Ecco quindi mariti stufi di mogli invadenti, ecco che il sopravvissuto diventa fenomeno da baraccone. Ma c'è ancora un'ultima questione messa sul banco da Black Museum: che razza di persona visiterebbe un museo del genere? Prima del colpo di scena finale (non tanto prevedibile quanto didascalico nello spiegare troppo), lo spettatore capisce poco per volta che quel luogo non è certo lì come monito contro i mali del mondo, non certo per mettere in guardia ogni visitatore dal peggio di cui siamo capaci. No, siamo in quel museo perché siamo malati di un voyeurismo perverso, perché avvertire il distacco tra il malessere altrui e la nostra normalità ci fa stare meglio, è rassicurante e quasi piacevole. E intanto Black Mirror, anche quando sembra troppo guardarsi allo specchio piuttosto che stupire, fa leva sempre lì: sul nostro senso di colpa. Di spettatori e di essere umani.

Movieplayer.it

3.5/5