"La luce che proviene dalle opere di una persona si diffonde nel mondo e rimane anche dopo la sua morte. Che sia grande o piccola, effimera o duratura, dipende dal mondo e dai suoi metodi. Ai posteri l'ardua sentenza". Con queste parole Elisabeth Young-Bruehl, autrice della biografia più attendibile sull'intensa vita intellettuale di Hannah Arendt, ha in qualche modo acceso d'interesse l'immaginazione di Margarethe von Trotta, tanto da spingerla alla realizzazione di una nuova avventura cinematografica. Da sempre interessata alla narrazione di figure femminili forti e determinanti, basta ricordare Rosa Luxemburg e Hildegard von Bingen, questa volta la regista tedesca si confronta con la personalità moderna e geniale di una filosofa ebrea che, dalle pagine del New Yorker, cercò di analizzare la tragedia della Shoah da un punto di vista analitico nel quale, per la prima volta, all'emotività non veniva concesso spazio. Il risultato è il film Hannah Arendt, probabilmente distribuito in Italia da Ripley's il prossimo autunno e che ha già fatto parlare di sè negli Stati Uniti e in Germania. Al centro della narrazione, oltre all'articolazione del pensiero che portò alla nascita dello scandaloso e rivoluzionario saggio La banalità del male, c'è però anche il profilo emotivo di una donna che, attraverso l'ironia ed un'inaspettata capacità di sedurre vestita perfettamente dall'interprete Barbara Sukowa, decise di non trasformare la sua condizione di ebrea esule in uno stato sociale.
Signora Von Trotta, come ha gestito il rapporto con la personalità complessa di Hannah Arendt, una donna dal grande spessore culturale e umano? Margarethe Von Trotta: Confrontarsi con un gigante intellettuale mette paura. Non si tratta di modestia ma di realtà. Per questo il rapporto di fiducia costruito tra regista e attrice è stato fondamentale. In qualche modo Barbara ed io ci siamo date la mano provando ad attraversare un tunnel senza sapere se alla fine ci sarebbe stata la luce. Una sorta di avventura, insomma.
Lei non è certo nuova al racconto di figure storiche femminili, basta ricordare Rosa Luxemburg e Hildegard von Bingen. Cosa l'ha attratta in particolare questo moderno ritratto di donna? Margarethe von Trotta: La questione di come realizzare un film su una donna che pensa e come osservare una donna dedita principalmente al pensiero. Ovviamente avevo anche paura di non renderle giustizia. Questo ha reso il ritratto cinematografico molto più difficile rispetto, per esempio, a quello della Luxemburg. Entrambe erano molto intelligenti e uniche, dotate della capacità di amare e stringere amicizia, delle pensatrici e oratrici provocatorie. Talvolta, però, Hannah mi ha intimorito perché appare improvvisamente irritante e arrogante. Soltanto dopo aver scoperto la celebre conversazione tra lei e Gunter Gaus mi sono convinta che fosse veramente una persona affascinante, arguta e piacevole. Dopo averli osservati insieme ho capito cosa intendesse Gaus quando la classificò come una donna capace di conquistarti immediatamente.Signora Sukowa, cosa ha pensato quando Margarethe Von Trotta le ha proposto questo personaggio così complesso? Barbara Sukowa: Quando mi ha parlato della parte ho avuto un gran timore al pensiero di dover affrontare una intellettuale gigantesca di cui conoscevo il nome, ma della quale non avevo mai approfondito il lavoro. Però, con Margarethe ci unisce soprattutto il piacere di imparare e scoprire cose nuove, per questo cerchiamo di esplorare territori mai battuti.
Come ha lavorato per costruire il suo personaggio?
Barbara Sukowa: Ho cercato di conoscerla il più possibile. Prima di tutto mi sono affidata alla biografia e alle lettere che ha scritto durante la sua attività culturale. Ma un'attrice deve anche scoprire le sfaccettature personali del personaggio. Questo è stato più difficile perché mi sono dovuta confrontare con una personalità riservata. Quindi, ho letto tra le righe per captare delle caratteristiche più intime. In fin dei conti mi sono trasformata in un'investigatrice, incontrando persone che l'hanno conosciuta e guardando la sua vita da angolazioni diverse. Penso che sia illusorio, però, credere che un attore possa automaticamente trasformarsi in una persona diversa. I ruoli vengono scritti, poi però bisogna riuscire ad immaginare la sua esistenza realisticamente. Per ottenere questo cerco di mescolare la mia anima con la sua. Si tratta di un processo misterioso, spesso incomprensibile, dove influenti sono l'interazioni con il regista, i compagni di set, le esperienze personali e le proprie aspettative.
Margarethe Von Trotta: Barbara ha curato con particolare attenzione due aspetti di Hannah Arendt; la teoria filosofica e l'accento. Entrambi sono molto importanti perché la caratterizzano fortemente. Per l'aspetto culturale si è fatta guidare da un insegnante per comprendere proprio le basi del pensiero. Mentre, per quanto riguarda la lingua, tre mesi prima delle riprese ha cominciato ad arricchire il suo inglese con una chiara cadenza tedesca. Il tutto per non apparire finta e artificiosa sul set.
Raccontare la figura di Hannah Arendt e la genesi del suo rivoluzionario La banalità del male, vuol dire far confrontare il pubblico tedesco ancora con la vergogna del nazismo. Come è stato accolto il film in Germania? Margarethe Von Trotta: Molto bene e devo ammettere che ne sono rimasta sorpresa. Probabilmente, però, questo era il momento giusto per raccontare una storia sull'applicazione del pensiero e i suoi effetti. E' come se, dopo il palesarsi della crisi economica, la gente fosse tornata a utilizzare la propria mente. Per troppo tempo siamo rimasti intrappolati nel sistema delle grandi banche e delle industrie, cui abbiamo demandato il nostro futuro. Ora si torna a riflettere e a comprendere quanto, la negazione di questa semplice e naturale necessità umana possa creare delle catastrofi. Il film, comunque, verrà presentato anche in Israele il 3 aprile e sono curiosa di vedere quale sarà la reazione. Speriamo che somigli a quella ricevuta al Festival di Toronto, ossia una vera e propria standing ovation.
Parlando proprio di Israele, non crede che mostrare il processo contro il nazista Adolf Eichmann, organizzato a Gerusalemme negli anni Cinquanta, possa ancora oggi creare delle tensioni? Margarethe Von Trotta: All'inizio non avevo inserito questa parte poi, però, il mio produttore mi ha spinta a prendere coraggio. In quegli anni, con uno stato d'Israele ancora molto fragile, i giovani si rifiutavano di parlare con le proprie famiglie della Shoah. Molti di loro credevano che a sopravvivere fossero stati solamente i cosiddetti collaborazionisti. Il processo doveva mostrare a quella generazione cosa era accaduto nella realtà. Allo stesso modo, anche i nostri ragazzi hanno ancora bisogno di comprendere.Attraverso il pensiero e la vita di questa donna lei ha voluto realizzare un omaggio alla parte migliore del suo paese? Margarethe von Trotta: Non faccio omaggi alla Germania, ma ad un essere umano pensante e, per giunta, ebrea. Questo vuol dire che, attraverso il film, voglio mettere in evidenza quello ciò che la Germania è andata perdendo attraverso la fuga dei suoi intellettuali. Inevitabilmente siamo diventati più poveri.