Bif&est 2013: per Gassman il futuro è una sola Razzabastarda

Dopo essere stato presentato al Festival di Roma, il primo lungometraggio di Alessandro Gassman torna a far parlare di sé anche alla manifestazione barese. Il neo-regista, che abbiamo intervistato per voi, ci dimostra che anche per il cinema italiano esiste un'alternativa alla commedia.

"Alfred Einstein ha affermato di conoscere una sola razza, quella umana. Questo pensiero definisce perfettamente il mio film". A parlare è Alessandro Gassman che, per la prima volta nelle vesti di regista cinematografico, al Bari Film Festival accompagna il suo primo lungometraggio Razzabastarda, distribuito da Moviemax dal 18 aprile. Per motivi di lavoro, che lo vedono impegnato a teatro con il Riccardo III, la sua presenza è veloce e concentrata in un solo giorno, ma fondamentale per un film caratterizzato da una tematica destinata a scuotere coscienze e a sollevare discussioni. Perché al centro della narrazione ci sono gli ultimi, il popolo di immigrati rumeni, quelli destinati a vivere ai margini della società in una eterna frattura tra il sogno di una vita migliore e una predestinazione alla tragedia senza scampo. Già rappresentato a teatro dallo stesso Gassman, il personaggio di Roman, zingaro di nascita e padre per vocazione, torna a vivere così anche sul grande schermo insieme all'amico Geko (Manrico Gammarota) e alle speranze costruite per il figlio Nicu (Giovanni Anzaldo). Intorno a loro prende vita un mondo che, tra spacciatori, prostituzione e disperazione mette a nudo l'anima immensa e sofferente degli invisibili.

Dopo molte regie teatrali, ha deciso di cimentarsi anche con quella cinematografica. Come nasce il progetto di Razzabastarda? Alessandro Gassman: Questo film arriva dopo una lunga turneéedurata ben tre stagioni e dalla piace teatrale Cuba and his Teddy Bear, scoperta e messa in scena da De Niro a Off Broadway alcuni anni fa. Leggendo la storia ho pensato che quella periferia, abitata da latino americani, non fosse così diversa da quelle delle nostre città. L'unico cambiamento sostanziale è stato sostituire i cubani con i romeni. Da queste premesse è nato un piccolo film realizzato, però, da grandi professionisti. Tutti loro hanno messo a disposizione i propri talenti per raccontare una storia capace di colpire direttamente al cuore.

Il film è girato interamente in bianco e nero, imponendo immediatamente uno stile ben preciso. In che modo questa scelta estetica caratterizza la vicenda?
Questo film l'ho sempre immaginato così anche quando ero in teatro e non avrei potuto realizzarlo in nessun altro modo. Quando ho finite di scrivere la prima stesura dell'adattamento con Vittorio Moroni, l'ho letto e me lo sono immaginato. E il risultato finale è fortemente vicino a quello che avevo visualizzato. Si tratta di una sensazione e un'esperienza particolare, come se avessi avuto un déjà vu.

Quali corde emotive ha toccata il personaggio di Roman, tanto da volerlo interpretare senza riserve e con completa dedizione?
Ho dentro di me molte delle caratteristiche del personaggio. Ad esempio, durante la mia adolescenza ho avuto dei disturbi comportamentali che, fortunatamente, sono riuscito a sfogare nello sport. Per questo motivo sono perfettamente cosciente di cosa sia la violenza stupida e cruda. Roman è stupido e ignorante però, al contrario di me a quattordici anni, ha un cuore immenso che dimostra, sbagliando, nei confronti di un figlio amato disperatamente. Questo mi ha fatto innamorare completamente della sua storia e ha portato circa duecentomila persone a teatro. Mi auguro che altrettante possano conoscerlo sul grande schermo, commuovendosi e divertendosi con lui. Inoltre, ci sono dei punti nel film, come penso sia giusto e normale, in cui non viene negato un sorriso. Infondo la vita, anche nei momenti più drammatici può farci ridere malgrado noi stessi.

Il film mette in evidenza l'esistenza al limite di persone che vivono ai margini della società. Che augurio c'è in questa storia?
La mia speranza è di continuare ad informare con delle certezze. Ossia il nostro paese non tornerà indietro, sarà sempre più misto e continueremo questo processo. Un'evoluzione che, a mio parere, ci appartiene da secoli, viste le diverse dominazioni da cui proveniamo tutti noi, e che è destinata a renderci sempre più belli e sani. Ma, più di ogni altra cosa, dobbiamo ricordarci come gli oltre cinque milioni di stranieri che vivono in Italia permettono al nostro paese di andare avanti. Senza di loro non avremmo neanche la corrente elettrica.

Lei recita con un accento romeno assolutamente credibile. Ha avuto un dialogue coach che l'ha aiutata a non cadere vittima di esagerazioni?
Sul set ci ha aiutato un'attrice, l'unica romena vera. Poi mi sono affidato a dei lavoratori che ho avuto in casa e ai nostri trasportatori dello spettacolo, che per tre anni hanno seguito Roman in teatro. Anzi, loro sono stati il campanello d'allarme grazie al quale ho compreso le potenzialità di questa vicenda. Vederli commuoversi tutte le sere poco prima del finale e riconoscere nei fatti raccontati la vita di alcuni loro amici, mi ha fatto capire di avere tra le mani la storia giusta con la quale iniziare il mio percorso di regista cinematografico.

In questo momento il nostro cinema sembra puntare tutto sulla produzione di commedie. Perché non ha pensato ad un esordio forse più facile e leggero?
Riguardo al cinema italiano si dicono spesso dei luoghi comuni. Personalmente credo che tutti noi, attori, registi, sceneggiatori e produttori dobbiamo essere semplicemente meno pigri. Per quanto mi riguarda, chi conosce il mio lavoro a teatro sa perfettamente che ho sempre puntato alla drammaturgia. Per questo motivo con Razzabastarda credo di aver fatto il passo giusto per la mia prospettiva futura, ossia non fermarmi a questo film ma andare avanti.