Per dare un'idea di cosa abbia rappresentato questa 57° Berlinale conclusasi appena due giorni fa, cominciamo dai numeri: 373 film e 1.190 proiezioni, oltre 19.000 accreditati (di cui più di 4.000 giornalisti) da 127 paesi, circa 430.000 le presenze calcolate nell'area del festival e oltre 200.000 i biglietti venduti per le proiezioni del pubblico. A questo bisogna aggiungere l'EFM (European Film Market, ormai per grandezza ed importanza terzo mercato cinematografico internazionale) con 250 compagnie che hanno presentato 702 film a 878 compratori internazionali. Quello di Berlino è ormai il secondo festival al mondo (dopo, ovviamente, Cannes) e questa del 2007 sarà sicuramente ricordata come una delle annate più ricche ed interessanti.
Cominciamo a parlare dei film partendo dai premi ufficiali della giuria internazionale presieduta da Paul Schrader e composta da Willem Dafoe, Gael Garcia Bernal, Mario Adorf, Hiam Abbass, Nansun Shi e Malene Stensgaard: se il Premio Alfred Bauer per l'opera più innovativa è senza dubbio azzeccatissimo per il nuovo film di Park Chan-Wook, I'm a Cyborg, But That's Ok, a prescindere dal più o meno riuscito risultato finale, tutti gli altri premi non hanno mancato (e non mancheranno) di far discutere. Tuya's Marriage, alla vigilia dei premi, non era sicuramente tra i favoriti, anzi a dirla tutta non era mai stato realmente considerato per la corsa all'Orso d'Oro, questo nonostante l'accoglienza ottenuta dopo le prime proiezioni fosse stata sicuramente buona e il momento molto positivo (ricorderete anche lo scorso Leone d'oro, Still Life) che sta passando il cinema cinese. Se non era stato considerato era perchè sempre più pressanti ed insistenti erano le voci su quelli che fino all'ultimo momento erano stati i favoriti: ovvero il tedesco The Counterfeiters, la co-produzione europea Irina Palm e il ceco/slovacco I Served The King of England; di tutti e tre in realtà non vi è alcuna traccia nel palmares 2007. Ad essersi imposto invece nel cuore dei giurati deve essere stato l'argentino El Otro, film molto poco amato dalla critica, ma che a sorpresa si è portato a casa due orsi d'argento, ovvero il gran premio della giuria e quello per il miglior attore, assegnato a Julio Chavez.
Se è meritatissimo l'orso per la miglior regia all'israeliano Beaufort (film che a questo punto avrebbe potuto aspirare anche a qualcosa di più), molto discutibile invece il premio come migliore attrice che va alla pur brava Nina Hoss, ma che fa scattare qualche campanello d'allarme: non ce ne voglia Dieter Kosslick, direttore della Berlinale dal 2002, ma questo è il terzo anno di seguito che un'attrice tedesca vince il premio per la migliore interpretazione; ci sarà anche la rinascita del cinema tedesco, ma francamente la magnifica Marianne Faithfull di Irina Palm ci era sembrata, e come a noi a tutti coloro hanno seguito la competizione, almeno un paio di spanne sopra. E a voler continuare a fare i sospettosi si potrebbe anche far notare come El Otro fosse anche uno dei progetti del World Cinema Fund, una (sicuramente lodevole) iniziativa proprio della Berlinale, o che il premio dato a tutto il cast di L'ombra del potere - The Good Shepherd sembra mascherare, un po' malamente, anche la volontà di far salire sul palco e premiare un'altra tedesca, Martina Gedeck, che nel film di Robert De Niro compare per pochi minuti ma è l'unica del cast ad essere presente alla premiazione.
Inevitabili malignità a parte, si può evincere che il modus operandi della giuria abbia comportato l'esclusione dal palmares non solo dei film dai toni più leggeri (anche se Irina Palm e I Served The King of England sono in realtà tragicommedie, e alternano momenti esilaranti ad altri più seri e riflessivi) ma anche di quelli che - come lo stesso King of England e il tedesco The Counterfeiters - trattano argomenti dolorosi e sempre di attualità come la parabola nazista e l'Olocausto (cui la Berlinale continua a dare ampio spazio anno dopo anno, riflettendo un senso di colpa che rimane una costante nella coscienza collettiva dei tedeschi), per premiare film intimisti, personali, ma che possono a loro modo aspirare all'universalità in quanto simbolo di un intero paese: le difficoltà di Tuya a lasciarsi alle spalle il proprio passato per affrontare il cambiamento non può che far pensare alla situazione di vaste zone della Cina che sembrano indietro di centinaia di anni rispetto alle aree moderne e industrializzate; in El Otro, invece, il protagonista che decide di allontanarsi anche solo per pochi giorni da problemi quotidiani e le responsabilità familiari, e assume, quasi come fosse un gioco, identità fittizie, può rappresentare la perdita di identità di una nazione - l'Argentina - che esce da decenni di crisi di ogni tipo.
Osservando i premi da questo punto di vista forse è più facile capire il perché delle bocciatura di ben quattro film portati in concorso da cineasti francesi - due trasposizioni letterarie classiche (Ne touchez pas la hache e Angel), una biopic dedicata ad una leggenda della musica (La vie en rose) e un film corale dal tema tragico e di grande risonanza (Les témoins) -, dei due pezzi da novanta americani, Intrigo a Berlino e The Good Shepherd (se escludiamo il contentino ottenuto dal film di Robert De Niro) - che volevano rifarsi a certo tipo di cinema classico americano, grandi noir anni '40 e '50 da una parte, grandi epopee familiari stile Il padrino dall'altra - o anche dell'unico italiano, In memoria di me di Saverio Costanzo, che propone una riflessione molto ambiziosa e decisamente molto lontana da quanto apprezzato da questa giuria.
Nel complesso, la sezione competitiva ha offerto molti film interessanti, pochi buchi nell'acqua, ma anche pochi capolavori - se non nessuno. Ma a questo hanno rimediato in parte i film fuori concorso, come spesso accade: in particolare lo splendido Lettere da Iwo Jima dell'ormai inarrestabile Clint Eastwood e il tesissimo Diario di uno scandalo, in cui due straordinarie interpreti, Judi Dench e Cate Blanchett, fanno a gara di bravura. Comunque interessanti anche le altre due pellicole fuori competizione, sebbene non perfettamente riuscite - The Walker dello stesso Schrader, ambizioso ma forse poco allineato ai gusti del pubblico - e il comics-kolossal 300 di Zack Snyder, tratto dall'omonima opera del guru dei fumetti Frank Miller, che a Berlino ha diviso la critica tra facili entusiasmi per il look iper-cool e la violenza sopra le righe, e una troppo severa bocciatura accompagnata a un'insistita ricerca di una politicizzazione e attualizzazione che, vista la natura del progetto, lascia il tempo che trova.
Per quanto riguarda le altre sezioni, vale a dire i rimanenti oltre 300 film, è ovviamente difficile trovare un comune terreno di analisi, ed era anche umanamente impossibile vedere tutto; senza dubbio la sezione Berlinale Special si è dimostrata davvero varia nella selezione - vi si trovavano a coesistere l'edizione restaurata del film fiume di Fassbinder Berlin Alexander Platz - lanciato contemporaneamente in DVD in Germania, e molto sentito ovviamente dalla città sede del festival, il giapponese Sakuran, esordio alla regia di un direttore della fotografia donna, che racconta il mondo delle cortigiane in modo colorato, vivace, pop e moderno, ma è assolutamente privo di alcun valore storico o di coinvolgimento emotivo, la nuova opera dei fratelli Taviani La masseria delle allodole, che tratta dello sterminio della minoranza armena da parte dei turchi durante il primo conflitto mondiale, per un film dal sapore decisamente troppo televisivo, e ancora I guardiani del giorno, secondo episodio della trilogia fantasy russa iniziata con I guardiani della notte, blockbuster dal sapore molto USA (distribuito da Fox International) ricchissimo di effetti speciali. Ma tra i più amati della sezione c'è il documentario I Have Never Forgotten You: The Life & Legacy of Simon Wiesenthal, narrato dalla voce di Nicole Kidman, che ripercorre la vita di questo straordinario personaggio che ci ha lasciato appena un paio di anni fa.
Per quanto riguarda Panorama, salta agli occhi la presenza di moltissimi attori passati dietro alla macchina da presa che hanno presentato i loro film in questa sezione: da Julie Delpy con il suo divertentissimo Two days in Paris, all'intensissimo Interview di Steve Buscemi, da El camino de los ingleses, ambiziosa opera seconda di Antonio Banderas, all'esordio di Sarah Polley, lo struggente Away From Her. Come da tradizione, c'è molto Sundance: la dark-comedy Teeth, lo stesso Interview, l'interessante Fay Grim. Ma l'opera l'opera più ammirata di Panorama 2007 è quella di un maestro habitué di questo festival, Yoji Yamada, col suo Love and Honor, che conclude la trilogia sui samurai iniziata con The Twilight Samurai e proseguita con The Hidden Blade, presentati anch'essi a Berlino negli anni scorsi.
Ci sarebbe molto altro da dire, come tanto altro c'era da vedere, in un Festival che aveva in cartellone decine e decine di documentari, una splendida retrospettiva sulle dive del cinema muto, un omaggio a quel magnifico regista che è stato ed è Arthur Penn (premiato con Orso d'Oro alla carriera), un'interessante divagazione sul rapporto tra cinema e cibo, e un ampio spazio dedicato al mondo di chi il cinema lo fotografa per professione. Tanto da dire e tanto da vedere per un Festival che grazia alla solita straordinaria organizzazione, che non ha quasi mai scricchiolato nonostante la notevole affluenza e la continua crescita, mantiene sempre alto il livello di una proposta attenta ai mercati, ai gusti del pubblico ma anche alle diverse e multiformi cinematografie mondiali.