Affrontare la recensione di Berlin Alexanderplatz, ambizioso film presentato in concorso all'edizione 2020 della Berlinale, può sembrare un compito ingrato, per ragioni puramente storiche e cinefile: si tratta infatti del terzo adattamento dell'omonimo romanzo di Alfred Döblin, dato alle stampe nel 1929 e considerato una delle opere letterarie fondamentali della Repubblica di Weimar, ma per molti esiste principalmente solo la seconda trasposizione, quella televisiva di Rainer Werner Fassbinder del 1980, un affresco epico della Berlino degli anni Venti che racconta l'ascesa e la caduta di tale Franz Biberkopf in quindici ore e mezza. Anche considerando solo la fonte letteraria, il nuovo film, di "appena" tre ore, difficilmente può evitare l'ombra ingombrante del maestoso lavoro di Fassbinder, che festeggerà il quarantesimo anniversario il 12 ottobre, quasi otto mesi dopo il debutto del lungometraggio di Burhan Qurbani, cineasta tedesco di origine afgana e coetaneo della celebre miniserie.
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Bissau - Berlino, solo andata
Come fa, quindi, Burhan Qurbani a distanziarsi dall'operato del suo predecessore (singolo, dato che il film del 1931 non ha avuto lo stesso impatto culturale)? Facendo un Berlin Alexanderplatz molto personale. Il canovaccio generale è più o meno lo stesso, ma cambia un dettaglio fondamentale: la figura di Franz. Nel testo di Döblin e nei due adattamenti precedenti è tedesco, e la sua avventura nella capitale teutonica inizia quando esce di prigione, dopo aver scontato una pena per omicidio. Qui invece si tratta di Francis (Welket Bungué), originario di Guinea-Bissau, arrivato in Europa in cerca di una vita migliore. Come molti immigrati arrivati in Germania in circostanze simili, senza permessi di alcun tipo, Francis si ritrova a fare lavori umilianti e mal pagati, ma continua a credere nel sogno europeo. Poi fa la conoscenza di Reinhold (Albrecht Schuch), che gli propone di entrare a far parte della sua squadra di spacciatori. Votato al crimine, Francis sembra comunque trovare una sorta di felicità, ma non tiene conto del fatto che sul lungo termine il suo legame professionale e personale con Reinhold non avrà effetti positivi.
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I tempi cambiano, la trama no
Come precisano i titoli di coda, questo è un adattamento libero del romanzo, situato nella Berlino di oggi, che ricontestualizza la prosa di Döblin sotto una nuova luce, quella dell'immigrazione clandestina. Qurbani, nato sul suolo tedesco ma figlio di genitori afgani, ci mette chiaramente del suo quando affronta di petto l'aspetto migrante, tornato sotto i riflettori con una certa prepotenza negli ultimi anni, non solo in Germania (dove la possibilità dell'ascesa di un partito di destra alcuni anni fa spinse Christian Petzold a realizzare La donna dello scrittore), ma sul piano europeo in generale, come nel controverso caso della Brexit e dei toni neanche velatamente xenofobi che si celavano dietro alcune delle sue strategie elettorali. Qui si trova il cuore dell'operazione, che modernizza un racconto classico con fare impegnato, ma non senza dimenticare un pizzico di ironia (è già di culto la battuta di Reinhold sulle regole dello spaccio di droga nel parco: "Non vendiamo alle donne incinte, non vendiamo ai bambini, gli hipster pagano il doppio e per i pensionati c'è lo sconto"). Il tutto con uno stile classico ma efficace, che non cerca il paragone con l'illustre predecessore salvo forse una piccola strategia narrativa in vista dell'inevitabile messa in onda sul piccolo schermo in patria dopo lo sfruttamento in sala: il film è diviso in sei parti (più un epilogo che sfida in parte la sospensione dell'incredulità), ideale per identificare i punti dove inserire gli stacchi pubblicitari.
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In tutto questo l'unica vera nota stonata è l'antagonista, nonostante l'attore si sia palesemente divertito a interpretarlo. Questo perché laddove il film cerca una non indifferente verosimiglianza, per quanto adattata in parte alle esigenze di certo cinema di genere (siamo pur sempre dalle parti di una storia crime), Reinhold si muove costantemente nella direzione opposta, con una caratterizzazione sopra le righe che banalizza in parte il discorso serio portato avanti dal regista. Non abbastanza da demolire l'intera operazione, ma nel corso delle tre ore del lungometraggio la sua presenza è la manifestazione fisica delle peggiori convenzioni legate a questo tipo di personaggio, progressivamente irritante e di conseguenza fonte di uno squilibrio che fa di questo progetto solo una rilettura per lo più interessante di un testo imprescindibile, anziché un adattamento degno di aspirare ai ranghi più alti che certe scene sembrano suggerire.
Conclusioni
Arrivati in fondo alla recensione di Berlin Alexanderplatz, l'impressione è quella di una parziale occasione sprecata: nonostante il film non faccia pesare le sue tre ore di durata e faccia un lavoro tutto sommato discreto nel modernizzare il testo di base senza scomodare il fantasma ingombrante della miniserie di Fassbinder, il progetto non sfrutta pienamente ciò che promette all'inizio, scivolando talvolta nel convenzionale invece di approfondire integralmente il discorso sulla Berlino cosmopolita di oggi.
Perché ci piace
- Il discorso sull'immigrazione è per lo più interessante.
- L'uso delle location berlinesi è suggestivo.
- Le tre ore di durata non si fanno sentire più di tanto.
Cosa non va
- L'antagonista è un po' troppo macchiettistico.
- L'epilogo lascia un po' a desiderare.