Con la recensione di Sull'isola di Bergman, film presentato in concorso a Cannes 2021, è difficile non tornare con la mente a un'altra edizione della kermesse francese, quella del 2018: era il centenario della nascita di Ingmar Bergman, e la sezione Cannes Classics lo omaggiò con ben due documentari, uno sull'anno 1957 (il momento in cui diventò il grande autore a cui nessuno poteva più imporre nulla) e uno sul suo rapporto non facile con la famiglia, evocato anche nell'altro film. In entrambi i casi si evitava l'agiografia, riconoscendo i meriti artistici di Bergman senza trascurare le sue non poche pecche come essere umano, di cui lui stesso era parzialmente consapevole: in uno spezzone d'archivio del 1957 diceva "Come padre non sono un granché, ho quattro figli e so più o meno che età hanno, ma non quando sono nati", al che la voce narrante della regista obiettava "All'epoca aveva sei figli" (uno di questi, Ingmar Jr., ha un cameo in questa sede). Mia Hansen-Løve fa un'operazione simile, sottolineando la natura paradossale di Bergman a partire dal suo attaccamento all'isola di Fårö, dove il film è stato girato.
L'isola della creatività
Sull'isola di Bergman si riferisce appunto a Fårö (letteralmente "isola delle pecore" in svedese moderno, anche se l'etimologia è legata al verbo fara, "andare"), situata nell'arcipelago di Gotland. Qui è dove Ingmar Bergman girò molti dei suoi film a partire da Come in uno specchio, e dove passò gran parte della sua vita, evitando lo stress di Stoccolma. Ancora oggi la sua eredità si festeggia in loco con vari eventi, ed è in tale contesto che arrivano sull'isola Tony (Tim Roth) e Chris (Vicky Krieps): lui sta per girare un nuovo film ed è stato invitato per il cosiddetto Bergman Week con una retrospettiva delle sue opere precedenti, mentre lei spera di trovare l'ispirazione per una nuova sceneggiatura. I due si confrontano sulle rispettive vicissitudini creative, con sequenze che riproducono ciò a cui Chris sta lavorando, e tra i vari argomenti di discussione ne sorge uno in particolare: come faceva Bergman a firmare film generalmente tristi pur vivendo in un luogo solare e tranquillo come l'isola di Fårö? Tony risponde beffardo "Prova a venire qua in inverno", mentre Chris cerca di trarre spunti positivi dall'ambiente che la circonda.
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L'opposto di Ingmar
Non mancano i dettagli filologici, come l'apparizione della sala cinematografica personale di Bergman, dove lui era solito vedere un film al giorno e girò le introduzioni per un cofanetto DVD nordico dei suoi film più noti (celeberrima quella de Il settimo sigillo, dove affermava di non averlo rivisto da tempo perché "quando rivedo i miei film mi deprimo, mi viene da piangere e mi scappa da pisciare"). Ma l'operazione di Mia Hansen-Løve non è una lettera d'amore nei confronti di Bergman, e non solo perché la sceneggiatura sottolinea più volte quanto il suo genio artistico fosse compensato da scarse qualità umane nel privato: è una risposta, giocosa e postmoderna, ai tópoi e ai momenti emblematici del cinema bergmaniano, dalla sauna che da luogo di punizione ritualistica riacquista il suo senso primario di fonte di gioia e rilassamento alla danza non più mortifera ma inneggiante alla vita, con accompagnamento musicale geograficamente corretto (gli ABBA in primis). Se nel suo cinema il momento iconico per eccellenza rimane il cavaliere che gioca a scacchi con la Morte, qui è tutto un gioco che ruota intorno alla creazione e a ciò che ci dà gioia nella vita.
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È anche, e soprattutto, un film sul cinema della sua autrice, che anche senza tirare in ballo Bergman ha sempre avuto a cuore le questioni legate alle creatività e agli effetti delle storie d'amore. Qui le due cose si uniscono, forse con fare un po' autobiografico (tra i ringraziamenti nei titoli di coda c'è quello nei confronti di Olivier Assayas, compagno della regista dal 2002 al 2017), e la sensibilità francese di Mia Hansen-Løve trova il giusto terreno nel vero ambiente nordico di Fårö, un luogo idilliaco che trasuda amore per la vita nonostante il suo legame con un regista spesso ossessionato dalla morte. La scampagnata fisica e spirituale, nella realtà e nella finzione immaginata da Chris (con Mia Wasikowska nei panni di una sorta di alter ego), genera un meraviglioso, allegro cortocircuito che fa venire voglia di tornare subito in sala e poi stare all'aperto, in compagnia, ad apprezzare i semplici piaceri di un tuffo nell'acqua o di un giro in bicicletta, non alla ricerca del posto delle fragole, ma di un attimo di pace interiore e riconciliazione con il mondo.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Bergman Island, sottolineando come si tratti du un inno alla gioia e al cinema che parte da Ingmar Bergman per farsi più personale. Magnifica la prestazione di Vicky Krieps, impeccabile l'uso dei veri ambienti in cui visse Bergman.
Perché ci piace
- L'uso di Fårö è filologico, intelligente e divertente.
- La decisione di non essere agiografici nei confronti di Bergman è encomiabile.
- La riflessione sul cinema e sulla creatività è profonda al contempo allegra.
Cosa non va
- Alcuni aspetti metacinematografici possono risultare ostici se non si apprezza questo tipo di operazione.