In occasione di una delle ultime interviste rilasciate alla stampa internazionale (The Guardian) per l'uscita USA del suo Battle Royale, fu fatto giustamente notare a Kinji Fukasaku come fosse incredibile che una pellicola del genere potesse essere stata concepita da un cineasta con più di 70 anni e in attività già da quasi mezzo secolo. La sua natura moderna, il suo respiro contemporaneo, la sua voglia di parlare del futuro e la sua spinta sovversiva la rendono infatti un'opera dalle caratteristiche perfette per essere avvicinata più ad autore in rampa di lancio, pieno di cose da dire e con l'ardore che solo la gioventù ti consente di avere. Un po' come Koushun Takami, la penna dietro il romanzo da cui la pellicola è tratta e anche fautrice del manga, e un po' come Kenta Fukasaku, il figlio di Kinji, che infatti aiutò il padre nell'adattamento, entrambi intorno ai 30 all'epoca. Eravamo nel 2000.
Eppure nessuno di loro è stato il reale padre creativo di un'opera audiovisiva che sicuramente beneficia di un soggetto geniale e di una sceneggiatura molto intelligente, ma è in grado di sfruttare a pieno il suo potenziale e di elevare la sua statura artistica grazie alla regia e alla direzione creativa, figlie di un'ispirazione rara, di una maturità coltivata e di un coinvolgimento personale assolutamente determinante. La formula ideale per rendere una pellicola un cult, ovvero un lavoro i cui significato e importanza sociale trascendono gli anni della sua uscita, ma anche quelli dei suoi creatori.
Battle Royale è nato per provare a cercare una risposta (o, meglio, per invitare il pubblico a farlo) ad un interrogativo universale, che ruota intorno ad un rapporto generazionale che spiazza gli adulti e frustra i giovani. Forse per questo non ha età. Che poi è la caratteristica che si richiede ai capolavori. O no?
Kinji e Battle Royale
Uno dei motivi per cui Kinji Fukasaku decise di girare Battle Royale fu il legame che fin da subito riconobbe tra i quindicenni protagonisti del romanzo e il se stesso loro coetaneo. Il cineasta giapponese nacque nel 1930 e all'epoca della fine della Seconda Guerra Mondiale lavorava, insieme ai suoi compagni di classe, come operaio in una fabbrica d'armi di solito preda dei raid nemici. Proprio nel mese del suo compleanno (luglio), l'impianto subì un massiccio bombardamento che fece tantissime vittime tra coloro che si trovavano al suo interno.
Molti erano ovviamente gli scolari colleghi di Fukasaku, che riuscì a sopravvivere come gli altri solamente adoperando i corpi dei propri amici a mo' di scudi umani. Un evento che segnò, ovviamente, il regista, ma non solo per la violenza e la morte portata dalle bombe, quanto per i limiti dell'empatia che improvvisamente furono chiari a lui e a tutti coloro che videro di nuovo la luce del sole. Più volte infatti egli ricordò come ciò che più gli rimase impresso negli anni a venire fu il modo in cui i sopravvissuti si guardarono alla fine del raid, consapevoli di non essere in grado di incolparsi a vicenda, ma allo stesso tempo di aver toccato con mano un tipo di disumanità che nasce nel momento in cui emerge l'autoconservazione. Una parola, questa, che è diventata d'ordine nel Giappone post bellico, ma che andando avanti si è espansa in sempre più Paesi e declinata in sempre più ambiti.
Fukasaku tornò sulla Seconda Guerra Mondiale come direttore tecnico di un episodio di Tora! Tora! Tora!, quasi "un coordinatore per le scene degli aeroplani", come si definì lui ricordando il film, aggiungendo di non essere andato mai fiero di quella partecipazione. Quella portata in scena non era la guerra che lui ricordava, un teatro degli orrori nel quale gli gli attori non avevano più idea di cosa stessero facendo, come se avessero smarrito loro stessi per sempre.
Fu probabilmente la volontà di tornare a parlare di quel tipo di status ad unirsi al legame che il cineasta sentiva nei confronti dei ragazzi della storia e a permettergli di raccontare appieno una violenza così complessa e sfaccettata. Violenza che è propria della guerra, ma anche della competizione portata alle sue estreme conseguenze, svuotata da qualsiasi forma di empatia e invece riempita dalla paura di fallire (di questi tempi sempre più identificata con quella di morire). Una nuova realtà in cui il successo passa per l'annullamento di se stessi, perché è l'unico modo per annullare gli altri.
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Il settantenne e i giovani
Fukasaku fu un rivoluzionario del cinema giapponese. A lui si deve la nascita di una pellicola come Lotta senza codice d'onore, che è un po' Il Padrino per il cinema del Paese del Sol Levante. Da lì in avanti la yakuza non fu più un soggetto tabù. Non sorprende quindi che si interessò poi alle tematiche sociali presenti in Violent Cop, che doveva girare al posto di Takeshi Kitano (sempre con l'attore come protagonista), salvo poi doverlo abbandonare e permettendo così l'inizio della carriera come autore e interprete per il grande schermo di una delle personalità più importanti del mondo asiatico.
Battle Royale è stato anche il modo per i due di riuscire finalmente a collaborare. Più volte Fukasaku ha affermato che non avrebbe fatto il film senza Kitano e quest'ultimo, nel documentario che girò durante la lavorazione, ha mostrato come il regista volesse che egli interpretasse se stesso e nient'altro.
Questa è un'altra, fondamentale, chiave dell'universalità della pellicola. La bravura del cineasta è stata quella di mettersi nei panni dei quindicenni, ma anche di distaccarsi da essi per porsi come uomo della sua generazione. Lo ha fatto addossandosi in prima persona le colpe di non aver saputo cambiare la storia e di aver reso anche i suoi figli vittime di quella stessa violenza che ha colpito lui e i suoi coetanei. Il personaggio di Kitano diventa così il volto di una società come la nostra, mutilata dai suoi stessi padri, ferita e confusa come non mai e dunque ancora più violenta nei confronti di coloro che avrebbe dovuto aiutare a vivere e prosperare. Un loop infinito di colpe da cui non si salva nessuno perché, semplicemente, si è sopraffatti.
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Un ritratto ancora attuale
Rifiutarsi di vedere un futuro per la nostra società è divenuto l'unico modo per esorcizzare una paura figlia di un vuoto interiore sempre più grande. La ribellione giovanile si è veramente rivolta in larga parte contro se stessa, ammaestrata da una settorializzazione sempre più emotivamente estraniante in cui comanda la legge dell'uomo mangia uomo, tra l'altro avvalorata da una precarietà sia economica che esistenziale che non ammette nessun tipo di compromesso. O, comunque, ne ammette sempre meno.
Il distacco dalle istituzioni si è tramutato in distacco dagli individui, mossi tutti da una rabbia immotivata che o si rivolge contro gli altri/se stessi o viene "dopata" da un nido personale figlio dell'infanzia, venduto come ultimo baluardo contro un mondo selvaggio al quale dovrebbe invece preparare, finendo per esercitare solo un'ennesima forma di violenza. Quella che si consuma davanti al computer e sullo schermo del telefono; che dà dipendenza perché confonde, impedisce di riflettere e, di conseguenza, disumanizza, storpiando il senso stesso di condivisione e comunità.
Nonostante questo, il suo reale senso Battle Royale lo trova nelle idiosincrasie di questa condizione, l'unico posto dove affiorano momenti di contatto reale e quindi di reale ribellione. Parla di chi è disposto ad emergere a scapito degli altri o di chi è costretto ad uccidere il proprio padre solo per prenderne il posto o, ancora, di chi alla fine non riesce più a guardare agli altri con fiducia e affetto. Però parla soprattutto di chi cerca l'amore ad ogni costo, anche se deve accontentarsi di ricordarselo, di chi si rifiuta di sopravvivere se gli altri non riescono, di chi guarda oltre le regole e prova ad insegnarlo a chi non ce la fa. Parla di chi è coraggioso, di chi non vuole rimanere solo, di chi è rivoluzionario e non reazionario. Di chi in quella violenza ci riesce a respirare. Cioè di noi in buona sostanza, a 20 anni o a 50, e anche con una discreta dose di dolcezza.