Spalle al muro, un melanconico Michael Douglas si rivolge ad una sorpresa Anne Archer (che otterrà la nomination all'Oscar) con le fatidiche parole: "Ti devo parlare". Manca poco meno di mezz'ora al termine, e Attrazione Fatale sta per scoperchiare tutto il suo profondo disagio, tenuto vivido dalla regia di Adrian Lyne, costantemente sospesa tra inquietudine ed erotismo. Un finale che sarebbe poi stato riscritto a seguito dei test screening, puntando maggiormente sull'effetto e meno sulla psicologia di una protagonista, Alex, che sì, anche all'ennesima revisione della pellicola, risulta decisamente sfumata. Del resto non c'è dubbio che la forza principale di Attrazione fatale, scritto da James Dearden su spunto di un suo cortometraggio del 1980, siano proprio le caratterizzazioni dei personaggi, inseriti in un contesto sull'orlo dell'esplosione. Inequivocabili le parole future di Glenn Close, che per il ruolo otterrà una candidatura all'Oscar: "In Alex non c'è nessun cliché, non lo intendevo come personaggio cattivo. Era una donna specifica, disturbata e fragile".
Eppure, la stalker di Alex Forrest, tutt'ora, è considerata una delle villain più inquietanti e influenti del grande schermo. E facciamo fatica a non essere d'accordo, basandoci sulla profilazione di una sceneggiatura in crescendo, che poco ha fatto (anzi, tutto il contrario) per darle una sorta di ragione oggettiva. Ci penserà, diversi anni dopo, l'adattamento seriale con Joshua Jackson e Lizzy Caplan (che trovate su Paramount+) a rielaborare la figura di Alex (dandole un background), ma intanto - e siamo nel 1987, un'epoca cinematografica e sociale molto diversa - l'icona malvagia era stata creata. Anche perché quello di Lyne è a tutti gli effetti uno di quei film che oggi non se ne fanno più. Di diritto nell'insieme dei cult movie, Attrazione fatale, ora sdoganato anche dallo streaming (lo trovate su Netflix), merita ancora una volta una riflessione, partendo proprio dal discusso finale, a cui si aggancia l'evoluzione (o l'involuzione?) che riflette gli splendidi personaggi.
Attrazione fatale: la responsabilità delle proprie scelte
È noto che Attrazione fatale avrebbe dovuto concludersi con il suicidio di Alex, facendo così risaltare il disturbo borderline della stalker, legata a doppia mandata con l'avvocato Dan Gallagher dopo una notte di focoso amore. Un cambio generale che portò alla riscrittura dell'epilogo, con tanto di riprese aggiuntive volute dalla produzione. Una sequenza meno sottintesa (che non vogliamo rivelare, qualora non aveste ancora visto il film) ma indubbiamente funzionale all'obbiettivo cercato da Adrian Lyne: alterare l'idea di famiglia medio-borghese americana. In fondo, è questa la lettura principale che arriva da Fatal Attraction. Dan, avvocato di Manhattan, è il classico lavoratore, un bravo padre e bravo marito che porta a spasso il suo labrador, che però accetta e accoglie il tradimento con Alex consapevole della scelta intrapresa. Una fugace avventura che dovrebbe attutire la routine quotidiana, se non fosse che Alex resta irrimediabilmente legata al fedifrago marito, generando una tempesta perfetta capace di stravolgere la vita dell'uomo, insinuandosi sommessamente come una sorta di virus in incubazione, per una sintomatologia che inizierà a palesarsi realmente quando Alex si ritrova davanti Beth, la moglie di Dan, finendo per risultare incurabile quando poi "rapisce" la loro figlia Ellen.
Attrazione fatale: Glenn Close, Michael Douglas e il lato oscuro dell'eros
Un neo-noir che distrugge il concetto di famiglia felice
Per certi versi, Attrazione fatale è lo specchio riflesso della conseguenza di una determinata azione. La responsabilità che viene meno, la fedeltà negata, la boriosa sicurezza di sé, forte di uno status quo destinato ad infrangersi per una forza maggiore che non si era potuto (o voluto?) considerare. Scena dopo scena, in due ore piene e mai dubbiose, c'è una costante e voluta manipolazione dei personaggi di Alex e di Dan, e di conseguenza c'è una manipolazione del nostro giudizio, più o meno sospeso. È l'uomo che accetta di andare a cena con Alex, mentre Beth è in vacanza. Ed è sempre l'uomo che decide di passare due giorni con la donna, prima di scaricarla, tornando alla routine borghese di cui si fa portavoce.
Un'azione seguita da una reazione, con il cortocircuito che poi farà implodere la precaria stabilità di Alex Forrest, sfoderando una frustrazione che la farà diventare l'emblema dello stalker e dell'amante vendicativa (il termine bunny boiler, utilizzato anche da Hank Moody in Californication_, viene dal film, ed indica un ex partner particolarmente violento). Spunto narrativo dal forte impatto, che nemmeno a dirlo ci tiene incollati alla storia nemmeno fosse una soap-opera. Archetipo del classico thriller psicologico, che si sarebbe poi evoluto nel neo-noir durante gli anni Novanta (Proposta indecente dello stesso regista rafforzerà il genere), il film di Lyne s-mitizza il concetto stesso di famiglia, mostrandone i lati più ipocriti, nonché la sua intrisa vulnerabilità. L'inquadratura finale, che si stringe sulla fotografia di Dan, Beth e della piccola Ellen, ne è l'emblema: dietro l'apparenza si nascondono bugie e segreti, seppelliti sotto una coltre di rabbia repressa, pronta ad deflagrare non appena l'acqua inizia a bollire.