Nel primo atto di Assassinio a Venezia, un Hercule Poirot deciso a ritirarsi a vita privata viene convinto a tornare 'in pista' proponendogli una sfida diversa rispetto ai consueti omicidi: stavolta, la sua missione sarà quella di smascherare l'inganno messo in atto in occasione di una seduta spiritica programmata per la sera di Halloween del 1947 (una proverbiale "notte buia e tempestosa") in un antico palazzo nobiliare che si affaccia sulla laguna di Venezia. E la proposta in questione arriva al detective belga da parte di una figura senz'altro emblematica: Ariadne Oliver, una popolarissima scrittrice di gialli con un infinito elenco di best-seller nel proprio curriculum, molti dei quali ispirati proprio alle gesta di Poirot. Insomma, quasi un corto circuito metatestuale in cui è difficile non cogliere un riflesso della stessa Agatha Christie.
Ad incarnare questo ironico alter ego della regina del giallo è una delle superstar della comicità americana, Tina Fey, tra le capofila del cast del terzo adattamento dei libri della Christie firmato dal regista e sceneggiatore britannico Kenneth Branagh. È dunque Ariadne (ovvero Agatha) a ricondurre Hercule Poirot alla propria natura di investigatore, spingendolo a rimettere in campo le sue celeberrime "cellule grigie" contro una singolare avversaria: la medium Joyce Reynolds, le cui presunte capacità soprannaturali costituiscono già di per sé una negazione dei principi basilari del giallo. Se un detective è colui che per definizione ha il compito di far ordine nel caos attraverso le inflessibili regole della logica, un medium è tale in virtù della possibilità di trasgredire a tali regole e di lasciar spazio all'elemento del paranormale e dell'occulto.
La giallista e la medium: la logica contro il mistero
Ad accentuare il carattere arcano ed 'esotico' di Joyce Reynolds, che si presenta ammantata di nero alla porta del palazzo dove avrà luogo la seduta spiritica, è la provenienza geografica della sua interprete, l'attrice malese Michelle Yeoh (reduce dal trionfo da Oscar di Everything Everywhere All at Once), secondo un archetipo sulle donne asiatiche consolidato da decenni nell'immaginario hollywoodiano. E la signora Reynolds incarnata da Michelle Yeoh è, a tutti gli effetti, una "donna del mistero", la cui capacità di entrare in contatto con gli spiriti dei defunti risulta inaccettabile agli occhi di un campione del raziocinio quale Hercule Poirot. L'immediata rivalità fra la giallista Ariadne Oliver, i cui romanzi sono imperniati sull'utilizzo della logica, e la medium Joyce Reynolds, in grado di dischiudere i cancelli dell'aldilà, è dunque l'espressione di un conflitto insanabile, del contrasto fra due visioni del mondo che non potranno mai arrivare a coincidere... o forse sì?
Ecco, in quel "forse" si può identificare il nucleo del dramma sperimentato in Assassinio a Venezia da Hercule Poirot: la sua fiducia granitica nell'intelligenza umana (le suddette cellule grigie) può ammettere l'esistenza di un'alterità di fronte alla quale non resta che arrendersi? La filosofia materialista di Poirot, che dichiara di non credere in Dio né in una vita dopo la morte, sarà messa in crisi da una serie di fenomeni in apparenza inspiegabili, legati alla leggenda nera della "vendetta dei bambini" che aleggia fra le sale e i corridoi del palazzo. Da qui la scelta di rielaborare la fonte letteraria, Hallowe'en Party (pubblicato in Italia come Poirot e la strage degli innocenti), non uno fra i titoli più noti della Christie, secondo i codici di un thriller gotico innervato di una sensibilità horror: nell'atmosfera, in alcuni passaggi narrativi, ma pure nell'uso di grandangoli che distorcono le immagini, esasperando la dimensione 'allucinata' della vicenda.
Assassinio a Venezia, la recensione: scomporre un giallo per costruire un thriller
Un giallo horror che rilegge Agatha Christie
Tale componente horror da un lato segna una drastica cesura fra l'Assassinio a Venezia di Kenneth Branagh e le convenzioni da rassicurante "giallo all'inglese" associate per antonomasia, con rare eccezioni (vedi Dieci piccoli indiani), all'opera di Agatha Christie; dall'altro, è necessaria a far vacillare le più profonde certezze del protagonista, per il quale quest'indagine assumerà un valore sempre più personale. In fondo, prima di dedicarsi alla trilogia su Poirot, Branagh era conosciuto in primo luogo per le trasposizioni da William Shakespeare; e più volte, nel film, all'orecchio di Poirot sembrano riecheggiare le parole di Amleto: "Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia". Per una volta, e al di là dell'esito della ricerca del colpevole, potrebbe essere che la razionalità debba arrestarsi al cospetto di un 'ignoto' in cui neppure l'infallibile Poirot ha speranze di penetrare?
Nell'approccio di Branagh al personaggio della Christie, uno degli spunti di maggior interesse si riscontrava nel precedente Assassinio sul Nilo: Poirot non era solo un distaccato 'segugio' dotato di fredda lucidità, ma si lasciava coinvolgere in maniera più intima dalle storie dei vari sospettati, fino a far riaffiorare il tormentato ricordo di un antico amore ormai perduto. In pratica, Assassinio sul Nilo era già in qualche modo un film di fantasmi: inquietudini della coscienza che, in questo terzo capitolo sulle avventure del detective, si materializzano come spettri, fra sinistre nenie infantili, sussurri dalle pareti e apparizioni nell'oscurità. In pratica, un po' meno Agatha Christie e un po' più di Shirley Jackson: è anche per questo, probabilmente, che Assassinio a Venezia risulta finora, a conti fatti, la rilettura meno fedele nonché la più riuscita realizzata dal regista inglese dai romanzi della regina del giallo.