Non siamo la generazione peggiore: siamo solo i più esposti. Viviamo nella costante attesa di un feedback e di un giudizio. Forse le nostre maschere sono un mezzo per sopravvivere alla nostra epoca.
Al termine dell'estate 2017, sul catalogo Netflix faceva capolino in sordina una serie poco pubblicizzata, lunga soltanto otto episodi, priva di nomi di richiamo e strutturata secondo un formato piuttosto inusuale: il mockumentary. Ma sull'onda di recensioni entusiastiche e di un eccezionale passaparola, in breve tempo American Vandal si rivelava una delle più apprezzate sorprese televisive dell'annata: un piccolo fenomeno che, dopo essersi conquistato uno zoccolo duro di fan, avrebbe ricevuto due candidature ai Critics' Choice Award e la nomination all'Emmy Award per la miglior sceneggiatura.
A distanza di un anno esatto da quel fortunato debutto, la serie creata da Dan Perrault e Tony Yacenda ritorna sugli schermi con una seconda stagione che, fin dalle prime battute, si riaffida alla formula della precedente, a partire dalla voce narrante: quella della coppia di protagonisti, Peter Maldonado (Tyler Alvarez) e Sam Ecklund (Griffin Gluck), giovani filmmaker già a capo dell'inchiesta al liceo della natia Oceanside, travolti dal successo del relativo documentario (un piccolo gioco metanarrativo usato come ponte fra le due stagioni) e chiamati a indagare su un altro mistero, ancora più bizzarro.
Leggi anche: Da The Handmaid's Tale al ritorno di Twin Peaks, le 20 serie TV del 2017
Il Bandito della Cacca e il lassativo nella limonata
In questa seconda stagione Peter e Sam sono in 'trasferta' a Seattle, alle prese con gli atti vandalici commessi in un altro liceo: la St. Bernardine, una scuola privata cattolica, teatro di ben tre 'crimini' accomunati dalla medesima firma, The Turd Burglar (nella versione italiana, il Bandito della Cacca). E ancora una volta, lo spunto narrativo dietro il meccanismo del mystery è caratterizzato da una smaccata trivialità: nel caso specifico, un triplo delitto di natura scatologica basato sulle feci. Il primo, devastante misfatto del Bandito della Cacca consiste infatti in un attacco contro l'intero corpo studentesco a suon di lassativo nella limonata, con conseguenze immediate e catastrofiche tanto per i singoli alunni, quanto per la nomea dell'istituto. Una sequenza che potrebbe candidarsi a diventare una delle scene più scioccanti delle serie TV, e al momento è diventata già virale sui social. Sulla stessa falsariga le successive imprese del vandalo, che nel frattempo si serve di un account su Instagram per rivendicare gli 'attentati' compiuti alla St. Bernardine.
E i social media, parte integrante dell'esperienza adolescenziale, assumono un rilievo di primo piano nella seconda indagine di Peter e Sam: un microcosmo virtuale, parallelo a quello concreto, in cui è possibile raccogliere informazioni e indizi, ma anche esplorare ulteriormente l'esistenza dei vari personaggi in gioco. Un dualismo rimarcato a chiare lettere: "Noi siamo la prima generazione di persone che vivono due volte", dichiara Peter, dopo aver illustrato come i social media abbiano contribuito a incrinare o addirittura a distruggere la reputazione - e, in certi casi, perfino il futuro - di teenager che hanno visto esposti vizi privati o sfoghi solitari. E all'inizio della stagione, c'è un ragazzo in particolare il cui futuro rischia di essere irrimediabilmente compromesso: Kevin McClain (Travis Tope).
Leggi anche: American Vandal: mistero al liceo nella nuova, imperdibile serie Netflix
Un ritratto generazionale ironico e doloroso
Considerato uno degli studenti più eccentrici e 'alternativi' della St. Bernardine, Kevin ha ammesso di essere il Bandito della Cacca, eppure non tutto quadra come dovrebbe: il ragazzo ha ritrattato la propria confessione, mentre altri elementi raccolti da Peter e Sam sembrano puntare in direzioni differenti. E man mano che la loro inchiesta va avanti, tra nuovi sospetti e vicoli ciechi, la serie costruisce un altro affresco di un tipico ambiente scolastico americano (ma non solo), con toni che oscillano fra il realismo e la satira: dal Kurt Vonnegut Day che si trasforma nell'occasione per un secondo, stravagante 'crimine' alle inevitabili gerarchie sociali che suddividono gli studenti in base ai gradi di popolarità; dai quotidiani atti di emarginazione e di bullismo alla sottile ipocrisia dell'istituto stesso, i cui interessi non sempre coincidono con il benessere degli allievi che ne fanno parte.
In sostanza, questa seconda stagione riesce a mantenere intatta l'essenza di American Vandal, risfoderando tutti i punti di forza del suo splendido esordio: il perfetto amalgama fra ironia e dramma, il ritmo spedito e coinvolgente dei suoi otto episodi e la capacità di ritrarre una galleria di personaggi assolutamente concreti e credibili, senza adagiarsi sugli stereotipi dei teen drama. Ad emergere su tutti, oltre a Kevin, c'è anche l'idolo della scuola, DeMarcus Tillman (Melvin Gregg), promettente talento del basket dotato di un carisma naturale e di una strabordante esuberanza, dietro i quali si celano però insospettabili fragilità e lati oscuri. E sono proprio tali lati oscuri a contraddistinguere il principale territorio di ricerca e di analisi di American Vandal, che adopera il veicolo dell'umorismo e di un'apparente leggerezza per raccontare una generazione costretta a far fronte a sfide inedite.
Leggi anche: Tredici, stagione 2: le altre versioni della storia
"...è l'immaginazione a renderci umani"
"Creiamo tutti una certa versione di noi stessi per sembrare i padroni del nostro destino; per sembrare saldi al posto di guida della nostra vita": lo scioglimento del mistero del Bandito della Cacca non risparmierà agli individui coinvolti un altro carico di frustrazione e di amarezza... quell'intimo senso di fallimento che i social media tentano di nascondere, ma che talvolta invece finiscono per amplificare. Ciò nonostante, American Vandal non si riduce affatto ad una bordata moralistica contro Facebook e simili: la riflessione elaborata dalla serie è molto più sfaccettata e complessa, e dall'esperienza dei social si allarga in generale alla natura umana, nelle sue imperfezioni e nella sua bellezza. Perché, come chiosa Peter nell'ultimo episodio, "questa finzione non fa di noi delle persone false: è l'immaginazione a renderci umani. Ci permette di capire quale versione di noi ci piace di più". E magari, se siamo fortunati, può perfino aiutarci a combattere per realizzarla.
Movieplayer.it
4.0/5