American Horror Story: 1984, la recensione: la peggior stagione di sempre?

American Horror Story: 1984, la recensione della nona stagione della serie: l'omaggio allo slasher naufraga fra situazioni ridondanti e personaggi senza spessore.

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American Horror Story: 1984: Cody Fern in un'immagine promozionale della stagione 9

Una tendenza che, in American Horror Story, ha preso sempre più piede già a partire dai tempi di Coven è stata quella di declinare l'horror, nei suoi diversi filoni, in chiave di black comedy e secondo un gusto camp via via più smaccato: un assunto che abbiamo scelto come punto di partenza per la nostra recensione di American Horror Story: 1984, la nona stagione della serie TV creata da Ryan Murphy e Brad Falchuk per la rete FX. E se tale propensione per il camp era appena accennata nel capolavoro Asylum, in cui a prevalere era un profondo senso di inquietudine, di anno in anno American Horror Story si è spostato sempre di più verso i territori della sagra granguignolesca con i contorni della parodia (emblematico il caso della penultima stagione, Apocalypse).

Una scelta discutibile, che sta costando alla serie un'emorragia di spettatori: soprattutto perché a questo cambio di direzione non corrisponde, purtroppo, un mantenimento di quegli standard di qualità ai quali stagioni come Asylum e Murder House ci avevano abituato. E in American Horror Story 9, almeno a giudicare dai primi quattro dei dieci episodi complessivi, il registro narrativo è talmente esasperato e sopra le righe da ridurre la visione a un puro fan service nei confronti degli appassionati degli slasher movie, un ramo dell'horror tipicamente anni Ottanta a cui la stagione numero nove rende omaggio fin dal titolo (privo invece, a quanto pare, di rimandi orwelliani).

Gli orrori di Camp Redwood

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American Horror Story: 1984: Emma Roberts e Cody Fern in una scena

Dalla qualità sgranata dell'immagine (si veda in particolare la sigla d'apertura) alla rievocazione di look, musiche ed elementi (la diffusa passione per l'aerobica) legati a quello specifico immaginario, American Horror Story: 1984 è concepito in effetti come un gigantesco omaggio al decennio in cui è ambientata la vicenda. Una vicenda che si intreccia perfino con un reale spunto di cronaca: la figura dello stupratore e serial killer Richard Ramirez, soprannominato Night Stalker, che nel 1985 terrorizzò la California e che nella première della serie, Camp Redwood, attenta alla vita di Brooke Thompson, da poco approdata a Los Angeles. Brooke, interpretata da una delle 'fedelissime' di Ryan Murphy, Emma Roberts, corrisponde in tutto e per tutto all'archetipo dell'ingénue, destinata suo malgrado a diventare la scream queen della situazione.

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American Horror Story: 1984: un'immagine di Emma Roberts

La mattina dopo aver subito un'aggressione notturna nella propria casa, Brooke accetterà l'invito per un soggiorno nel campo-vacanze che dà il titolo al primo episodio: una 'reazione' non troppo credibile, per una persona che ha appena rischiato la vita, ma del resto la credibilità sembra essere l'ultima preoccupazione di Murphy e soci. Ecco dunque che il manipolo di protagonisti si avventura fra i boschi californiani, alla volta di Camp Redwood: oltre a Brooke abbiamo l'ambiguo Xavier Plympton (Cody Fern), istruttore di fitness con ambizioni da attore, la maliziosa Montana Duke (Billie Lourd), l'ex atleta olimpionico Chet Clancy (Gus Kenworthy) e il suo amico Ray Powell (DeRon Horton). Ma il quintetto non tarderà a scoprire che quello stesso campo, un decennio prima, era stato il teatro della mattanza compiuta dal serial killer noto come Mr. Jingles (John Carroll Lynch, il clown Twisty di Freak Show).

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Un revival dello slasher sulla scia di Venerdì 13

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American Horror Story: 1984: Gus Kenworthy in un'immagine

Fin dalla puntata iniziale, per ora la più convincente (l'unica?) del lotto, si avvertono ovviamente gli echi di Venerdì 13, il cult horror che nel 1980 lanciò il filone degli slasher a sfondo vacanziero, e che qui funge da modello di riferimento primario. Perché American Horror Story: 1984 fa leva quasi del tutto sull'effetto malinconia, sulla riproposizione di situazioni e stilemi già da lungo tempo assorbiti dal pubblico, tentando di innestare qualche spunto di novità attraverso quegli aspetti farseschi di cui parlavamo in precedenza. Il problema è che un racconto basato su tali presupposti e nient'altro può funzionare solo fino a un certo punto: e infatti già dal secondo episodio l'accumularsi di inseguimenti e di cadaveri, di ammiccamenti ironici e di dettagli gore finisce inevitabilmente per perdere mordente.

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American Horror Story: 1984: un'immagine di Cody Fern

E non è sufficiente che quasi tutti i personaggi abbiano un passato tormentato e/o qualche oscuro segreto da nascondere: non quando i suddetti personaggi risultano essere meri cliché, privi di qualunque traccia di spessore e spesso guidati da motivazioni forzate (nel migliore dei casi) o incomprensibili. Così come non bastano l'effimero brivido di qualche jump scare, o l'efficace colonna sonora elettronica di Mac Quayle (il compositore delle musiche di Mr. Robot), a conferire vere ragioni d'interesse a un prodotto tanto ripetitivo e superficiale, ormai lontano anni luce dai fasti delle prime stagioni.

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Conclusioni

La nostra recensione di American Horror Story: 1984 si limita ai primi quattro episodi, ma a questo punto è difficile sperare che le puntate a venire possano far decollare una stagione che, spiace dirlo, potrebbe attestarsi come il punto più basso negli annali della serie. Ridondante e senza idee davvero originali, 1984 fallisce una missione essenziale per quasi ogni horror che si rispetti: suscitare la nostra empatia per i protagonisti. I patiti dello slasher potrebbero comunque trovare pane per i propri denti, ma tutti gli altri possono rinunciare a cuor leggero…

Movieplayer.it
2.0/5

Perché ci piace

  • Qualche affascinante suggestione legata agli anni Ottanta e all’immaginario di quel decennio.
  • Una certa tensione che, perlomeno nell’episodio iniziale, colpisce nel segno stimolando la curiosità dello spettatore.

Cosa non va

  • Una narrazione scontata e ripetitiva, che dopo una manciata di episodi già finisce per girare su se stessa, senza una direzione precisa.
  • Un approccio esageratamente camp e sopra le righe, ma privo della profondità metatestuale di opere come Scream e Quella casa nel bosco.
  • Una galleria di personaggi piatti e stereotipati, che faticano ad attirare la nostra partecipazione.