Recensione Terapia d'urto (2003)

La prima cosa che viene in mente dopo la visione di Terapia d'urto, è cosa ci facciano così tanti attori di valore in un prodotto così scadente.

Altro che terapia!

La prima cosa che viene in mente dopo la visione di Terapia d'urto, è cosa ci facciano così tanti attori di valore in un prodotto così scadente. Sì, perché alla fine la sensazione è proprio quella di fastidio, e il fatto che questo stato d'animo monti con rabbia dopo un film che dovrebbe essere divertente, è un elemento che non depone certamente a suo favore. Del resto, quando per strappare due risate si è ancora ridotti a parlare per tre quarti del film delle dimensioni del glorioso membro maschile, è evidente che dalle parti di sceneggiatura e regia non ci fosse una grande abbondanza di idee...

La trama, se così vogliamo chiamarla, è presto detta: Dave Buznik è un tranquillo uomo d'affari che in seguito ad uno spiacevole equivoco a bordo di un aereo viene scambiato dal giudice per una persona pericolosamente irascibile. Per questo motivo, viene condannato a seguire un programma per la gestione della rabbia organizzato dal dottor Buddy Rydell. I metodi terapici dello strano dottore, però, sconcertano il povero Dave, al quale per giunta ne continuano ad accadere una dopo l'altra.
Jack Nicholson gigioneggia come al solito, ma qui è privo del suo solito mordente, come se in fondo non ci credesse molto nemmeno lui; Adam Sandler è nel suo solito regno per cui se la cava senza infamia e senza lode; John Turturro è bravissimo (il migliore della compagnia in questo frangente), anche se tanta bravura sembra sprecata nel contesto generale. Compaiono anche Luis Guzman, una stranamente insipida e irritante Marisa Tomei e perfino John C. Reilly, che dopo alcune fantastiche recitazioni con le quali si è guadagnato meritate candidature all'Oscar, qui finisce ingloriosamente a fare il pagliaccio.

Ci sono perfino alcuni cammeo gustosi e prestigiosi, come quello azzeccato di John McEnroe. Se il valore degli attori in realtà ci sarebbe tutto, quello che manca è proprio il resto. D'accordo, il genere è esplicito e dichiarato, ma è proprio qui uno dei grossi difetti della pellicola: il film fa ridere poco e male, senza nessun gusto, ricorrendo a gag strampalate e da quarta serie. E se pensiamo che il tutto è infarcito alla fine con una mielosa, prevedibile e imbarazzante scena allo stadio (dove fra l'altro perfino il sindaco Giuliani fa la sua parte), allora, tirando le somme, va detto che il lavoro di Peter Segal è degno di essere dimenticato in fretta.

Movieplayer.it

1.0/5