"Mi sento come il cedro che diventa impuro quando è innestato". Sono le parole di Esther, una ragazza che fa parte di una famiglia ebrea ortodossa, arrivata in una località dell'Italia del sud (siamo in Puglia), dove, in una tenuta, si coltivano ancora i cedri, frutti considerati sacri, in modo che siano puri, senza alcun innesto. La recensione di Alla vita, il nuovo film di Stephane Freiss con Riccardo Scamarcio e Lou De Laâge, in uscita al cinema il 16 giugno, distribuito da Vision, inizia da qui. Alla vita racconta l'incontro tra due persone che stanno cercando la loro strada e di uscire da schemi in cui sono rimasti rinchiusi. Alla vita è un film esistenziale, intimo, una storia di pulsioni e vite represse, che la regia e due ottimi attori, perfettamente in parte, ci fanno seguire tenendoci in sospeso con una tensione costante. È una riflessione su religione e ortodossia, ma raccontata in modo più sfumato rispetto a prodotti come Unorthodox.
I cedri, la religione, la famiglia
Ogni estate i Zelnik, una famiglia ebrea ultra-ortodossa di Aix-Le-Bains, passa un breve periodo nel Sud Italia, per raccogliere cedri, frutti che, secondo un'antica leggenda, Dio aveva sparso in questa regione. A ospitare la numerosa famiglia nella sua tenuta è Elio De Angelis (Riccardo Scamarcio), un gallerista che ha iniziato a occuparsi della sua azienda dopo la morte improvvisa del padre, e che proprio per questo è stato lasciato dalla moglie. Elio incontra Esther Zelnik (Lou de Laâge), ventenne ormai stanca delle costrizioni imposte dalla sua religione. Esther sta tentando di abbandonare la dottrina ortodossa. Stando vicino ad Elio, parlando con lui, forse riuscirà a trovare la sua strada.
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Riccardo Scamarcio e Lou De Laâge, protagonisti perfetti
Alla vita è un film che vive in primis dei suoi protagonisti. Riccardo Scamarcio attraversa il film con la sua indubbia presenza scenica, con una consapevolezza del suo talento che ha trovato ormai da anni. Ormai libero di quella che era la sua immagine da divo, non ha paura di apparire trasandato, appesantito nel volto, provato, come richiede il suo personaggio, che così appare perfettamente credibile. La sua recitazione, giocata sui mezzi toni, sulla sottrazione, non è scontata per un attore del suo carisma, e qui appare centrata. Lou De Laâge (che avevamo visto ne L'attesa di Piero Messina) è una bellezza intrigante, spigolosa. enigmatica. Il suo lavoro sul personaggio è tutto nel contrasto tra il contegno che deve tenere e il fuoco che arde dentro, che traspare dagli occhi liquidi, chiari, mobilissimi e da un muoversi nervoso delle mani. L'abito che, per questioni di religione, deve tenere, una lunga gonna nera e una camicia bianca accollata, fa sì che quel volto, quegli occhi, risaltino ancora di più. Per un attimo basta un abito rosso, i piedi nudi, in un ballo sfrenato, per provare a capire cosa sia la libertà.
Protagonista e coprotagonista
È lei, la Esther di Lou De Laâge, la vera protagonista della storia. Viviamo i suoi sfoghi attraverso dei messaggi su un forum per chi si trova nella sua situazione, la sentiamo pregare direttamente Dio, in un modo molto toccante, quando invoca di lasciarla andare, di capire che a sua strada è lontano da lui. Ed è molto toccante il momento in cui quando racconta - è il frammento della confessione sul forum - di essere entrata in un cinema, attratta dal manifesto, senza poter resistere. e di essersi sentita in colpa, di avere la sensazione che anche l'attrice sullo schermo lo abbia notato. Confessa, in quella chat, di aver mentito, e di non avere mai smesso. In questo gioco di specchi, il personaggio di Elio, Riccardo Scamarcio, è quasi un coprotagonista della storia. Ha la sua vicenda, certo, ma spesso è uno specchio di quello che accade a Esther (guardate quella scena in cui i due si parlano mentre uno specchio rimanda l'immagine di lui, anche se sfocata, e i due sono nella stessa inquadratura invece che in un campo-controcampo), è un personaggio che si mette al servizio della sua storia. È lì per ascoltarla e per far uscire la sua vera personalità. Ma anche lei riuscirà a far ritrovare quella di Elio. C'è una tensione costante, continua, spirituale prima che sessuale, che si sente tra i due per tutto il film, che si esprime in maniera non scontata, e che sfocia in piccoli gesti, come quelle mani che si toccano nel bellissimo sottofinale.
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Una storia di pulsioni represse e di vite represse
Alla vita è un film che non scopre immediatamente le sue carte, che si prende il suo tempo per svelarle, per capire che strada intraprendere. E questo è parte del suo fascino. È una storia che mescola temi importanti, come una riflessione sulla religione e l'ortodossia, a momenti di contatto e comunione con la natura. È un mondo lontano da tutto, fuori dallo spazio e dal tempo, dove le relazioni, i contrasti, i dubbi sono più forti. Alla vita è un film esistenziale, intimo, una storia di pulsioni represse e di vite represse. È un film che non ha il classico lieto fine, ma piuttosto un quieto fine, un momento catartico, che, più che un punto d'arrivo, è un punto di partenza. Dove potrà arrivare lo lascia immaginare allo spettatore. Lasciare spazio alla nostra immaginazione è qualcosa che il cinema fa sempre più di rado, e quando accade è sempre un piacere.
Conclusioni
Nella recensione di Alla vita vi abbiamo parlato di un film esistenziale, intimo, una storia di pulsioni represse e di vite represse, che la regia e due ottimi attori, perfettamente in parte, ci fanno seguire tenendoci in sospeso con una tensione costante. È una riflessione su religione e ortodossia, ma raccontata in modo più sfumato rispetto a prodotti come Unorthodox.
Perché ci piace
- I due protagonisti, in parte e credibili, ci trascinano dentro la storia.
- La regia, che crea un racconto sospeso con una sottile tensione costante.
- Il tema affrontato, la religione e l'ortodossia, sempre delicato e interessante.
Cosa non va
- Potrebbe non piacere a chi vuole un film definito, con un finale preciso.