Recensione Rocky Balboa (2006)

Rocky Balboa è la celebrazione di un simbolo attraverso la messa in scena del suo funerale. Stallone congeda il suo alter-ego attraverso il suo rifiuto a arrendersi, ma allo stesso tempo delinea la sua fine evidenziando la tragica inattualità del suo personaggio-uomo-divo.

Addio Rocky Balboa

Se c'è un errore assolutamente da non commettere è quello di sdoganare Rocky Balboa con superficialità o snobismo. Rocky Balboa è tutto tranne che il film che ci si poteva attendere e la tentazione di liquidarlo a cuor leggero come un'operazione commerciale tutta muscoli, retorica e nostalgia lascia presto il campo a riflessioni di ben altro genere. Eppure il sesto e conclusivo atto delle avventure dello Stallone italiano è in effetti un film retorico e nostalgico e perché no, anche pietistico. Ma anche di una sincerità disarmante; sincerità che permette all'uomo Stallone di mettersi in discussione fino in fondo, oltre il rischio del ridicolo o del patetico. D'altronde Rocky è la sua creatura e il suo trampolino di lancio; il personaggio con cui Stallone da sempre fa i conti e che più rispecchia la sua personalità e con cui in questo suo ultimo film raggiunge una simbiosi assoluta. Andando perfino oltre la Sharon Stone di Basic Instinct 2 ma portando in dote uno sguardo diametralmente opposto. Perché Stallone rifiuta (proficuamente) di confrontarsi con l'oggi e decide di fermare il tempo invece che rincorrere un'assurda immortalità. Basterebbe analizzare le scelte di regia e di fotografia per averne una conferma insindacabile.

Il Rocky del 2006 è sempre lo stesso e quindi capisce sempre meno gli altri. Vive ancora nella gelida Philadelphia, è un vedovo distrutto dal dolore e un genitore incompreso. La sua ombra è troppo grande per suo figlio, ma il suo cuore è quello di un buon samaritano, pronto a voler ancora bene a Paulie e a accogliere una giovane madre e il suo figlio sperduto nel suo ristorante. Ma a Rocky non basta ancora. Proprio non ce la fa a spegnere il suo ardore e torna a combattere a sessant'anni suonati e Stallone porta in dote una faccia e un corpo senza filtri, che convincono molto più che in passato. E combatte con un giovane nero, imbattuto campione del mondo dei pesi massimi: una macchina pugilistica senza cuore né avversari, che secondo una simulazione virtuale perderebbe di certo contro la tenacia di Rocky.

Detta così sembra la solita solfa, eppure Stallone azzera gli eroismi e i trionfalismi che da sempre connaturano il suo personaggio per portare alla luce il suo lato malinconico e misericordioso. Rocky Balboa diventa così la celebrazione di un simbolo attraverso la messa in scena del suo funerale iconico, stilistico e figurativo. E se a volte può apparire involontaria la portata teorica del suo discorso, ci pensano alcune scene a garantire una consapevolezza che si fa quasi programmatica nell'inquadratura conclusiva. Stallone congeda il suo alter-ego attraverso il suo rifiuto ad arrendersi, ma allo stesso tempo delinea la sua fine evidenziando la tragica inattualità del suo personaggio-uomo-divo; la difficoltà di confrontarsi con la modermità. Non importa allora che spesso il suo film si dilunghi quando non dovrebbe e fugga dallo spettatore quando ci sarebbe altro da raccontare. Rocky è ormai il passato e Sly per la prima volta ci fa simpatia e anche un po' tenerezza. Goodbye Stallone italiano.