Recensione Adrift In Tokyo (2007)

Concedendosi di andare oltre ad una più superficiale visione in grado di assimilare soltanto la leggerezza della pellicola, si entra in contatto con un universo sospeso e atemporale, in cui il regista riesce a sottendere le trame del rapporto tra i due protagonisti in modo curiosamente inusuale.

A spasso con Fukuhara

Altro personaggio proveniente della televisione giapponese, Satoshi Miki è una delle rivelazioni della decima edizione del Far East Film Festival che ha incantato il pubblico del Teatro Nuovo col suo sguardo surreale su Tokyo e la delicatezza registica che lo caratterizza. Adrift in Tokyo è un road movie atipico che racconta la passeggiata di Fukuhara, un misterioso ed apparentemente gelido esattore di debiti, attraverso i luoghi della capitale legati ai suoi ricordi. Takemura (Jo Odagiri) è uno studente che, non si sa come, ha accumulato un debito di svariate migliaia di yen; l'incontro con Fukuhara (Tomokazu Miura) avviene una notte, quando l'uomo irrompe nel suo appartamento per riscattare la somma. Il giovane ne è sprovvisto e promette di recuperarla in pochi giorni, ma il successivo incontro tra i due prenderà pieghe inaspettate: l'imperturbabile Fukuhara propone al ragazzo di accompagnarlo a Tokyo in cambio di una grossa quantità di denaro e l'estinzione del debito. Takemura non può che accettare l'offerta. L'improbabile coppia si mette in cammino e presto Fukuhara rivelerà al giovane la ragione di questo viaggio: ha ucciso la moglie e vuole costituirsi, ma solo alla stazione di polizia di Kasumigaseki.

Adrift in Tokyo è apparentemente nulla di più che un film di facile appiglio, una di quelle pellicole fatte per piacere anche allo spettatore meno acuto grazie al carattere genuino che contraddistingue lo stile e la scrittura di Miki. Ma ovviamente c'è altro, nonostante l'intento del regista sia, a suo dire, unicamente quello di divertire. Concedendosi di andare oltre ad una più superficiale visione in grado di assimilare soltanto la leggerezza narrativa della pellicola, si entra in contatto con un universo sospeso e atemporale, in cui il regista riesce a sottendere le trame del rapporto tra i due protagonisti in modo curiosamente inusuale. Benché i riferimenti siano evidentemente quelli del più classico film on the road è evidente che la forza del lavoro di Miki sta proprio nello scardinamento di determinati canoni linguistici.

La passeggiata di Takemura e Fukuhara dalla periferia al centro urbano di Tokyo non vuole farsi metafora di chissà quale messaggio trascendentale, di un percorso di crescita mistico o piuttosto una riflessione introspettiva sui drammi personali e la sofferenza, di cui il genere è più facilmente espediente. In modo altrettanto originale, l'intensificazione del rapporto tra i protagonisti non avviene tanto attraverso la condivisione di avventure e situazioni quanto piuttosto nei momenti in cui i due si separano, si solidifica nella distanza e nella paura dell'abbandono. Quello che la macchina da presa omette, come ad esempio l'uxoricidio, viene sostituito dalle parole, quelle più semplici e spontanee dei pensieri, e da quello che i personaggi decidono di condividere. È infatti il contrasto che si crea tra la trama stessa e lo stile con cui viene messa in scena a determinare la singolarità di questa pellicola; l'ottima caratterizzazione che Miura e Odagiri offrono dei loro personaggi e lo sguardo disincantato di Satoshi Miki permettono al racconto di scorrere fluidamente e senza gli sbalzi ritmici del racconto più tipicamente episodico: la vita è più diretta ed immediata agli occhi del regista, niente lunghi epiloghi drammatici, e neppure struggenti confessioni d'affetto, nessuno si ferma troppo a pensare, meglio una passeggiata insieme e poi ognuno per la propria strada.