Momenti di commozione in sala Petrassi dell'Auditorium per la conferenza stampa di presentazione di Hard to Be a God, film fuori concorso al festival di Roma e ultimo lavoro - prima di morire lo scorso febbraio - del grande regista russo Aleksey German, cui è stato attribuito un premio postumo alla carriera. Erano presenti, oltre al direttore del festival Marco Müller e alla consulente per i paesi slavi Aliona Shumakova, anche la vedova del regista e sua compagna di lavoro, Svetlana Karmalita, il figlio Aleksey German jr.., anche lui regista e poi: il direttore della fotografia, Yuri Klimenko , l'attore protagonista Leonid Yarmolnik e i due produttori Viktor Izvekov e Rushan Nasibulin, capaci di seguire la lavorazione del film dal 1999 fino ad oggi!
Hard to Be a God (qui la nostra recensione) ispirato al romanzo omonimo dei fratelli Arkady e Boris Strugatksy, mette in scena la vicenda paradossale di scienziati terrestri inviati sul pianeta Arkanar per aiutare la civiltà locale a progredire. Uno di loro, Don Rumata, darà una interpretazione eccessiva al suo compito, trasformandosi in una sorta di divinità. Inaugurando l'incontro, Müller ha voluto ricordare che recentemente il presidente del Festival di Cannes Gilles Jacob, di fronte a chi gli chiedeva quale film sarebbe in grado oggi di rimettere in discussione il pensiero cinematografico, ha citato proprio Hard to Be a God. Si è trattata quindi di un'operazione assolutamente meritevole quella del Festival di Roma che è riuscito a proiettare il film in anteprima mondiale.
Potete raccontarci la storia della gestazione di Hard to Be a God, così lunga e complessa? Svetlana Karmalita: La storia di questo film inizia molto tempo prima dell'inizio della lavorazione. Già nel '64 Aleksey voleva dirigerlo - e sarebbe stato il suo primo lavoro da regista - ma gli stessi autori del romanzo cui il film si ispira, i fratelli Strugatksy, ci dissero che eravamo matti a voler fare Hard to Be a God. Più avanti, nel '68, la produzione venne approvata e poi bloccata a causa della repressione seguita alla primavera di Praga. A quel punto Aleksey continuò a lavorare ad altri progetti, fino Khrustalyov, My Car! del 1998, di cui aveva detto che sarebbe stato il suo ultimo film. Invece, subito dopo, ha cambiato idea e ha deciso di cominciare a lavorare ad Hard to Be a God. .Viktor Izvekov: La lavorazione del film è iniziata esattamente il primo febbraio del '99, mentre le riprese sono iniziate a marzo del 2000 fino all'agosto del 2006. Ci sono stati giusto un paio di intervalli sul set, lunghi due o tre mesi. Per il resto si è sempre lavorato al film. Dal 2006 abbiamo iniziato a lavorare sul montaggio, sulla sincronizzazione, sul sonoro, ecc. Quando Aleksey iniziò le riprese nel 2000 la sua salute era già compromessa, poi nel corso del tempo ha subito diverse operazioni e sul set era sempre più indebolito, senza mai perdere però l'energia e la forza. È stato fondamentale, ovviamente, che intorno a lui ci fosse un gruppo di persone che gli era estremamente vicino. È stata dura, ma ne siamo orgogliosi.
Svetlana Karmalita: È assolutamente così. Del resto le persone che si sono avvicinate in modo casuale al progetto - e ce ne sono stato - sono scomparse subito, mentre sono rimasti gli altri, quelli che ci credevano veramente. Perciò il gruppo si è costituito nel corso degli anni. E poi, lasciatemi ringraziare ancora una volta i nostri due produttori, Viktor Izvekov e Rushan Nasibulin, che sono sempre stati al nostro fianco. Non ho mai visto nessuno che, come loro due, abbia lavorato al progetto di un film con così tanto cuore e con così tanta dedizione. Come ha vissuto invece lei, Leonid Yarmolnik, questa esperienza da attore protagonista di un film dalla lavorazione "interminabile"? Leonid Yarmolnik: Intanto vorrei ringraziare Marco Müller che incontro per la seconda volta dopo aver ricevuto da lui un premio per il film Barak (1999) di Valeri Ogorodnikov all'epoca in cui presiedeva il Festival di Locarno. Anche per questo oggi sono molto felice, è un giorno particolare della mia vita. È stato un lavoro lungo e difficile, ma anche unico. Credo che non mi capiterà mai più un'occasione del genere, non mi capiterà mai più di fare una cosa così importante. All'inizio pensavo che ci avremmo messo due o tre anni, poi alla lunga ho davvero cominciato ad appassionarmi al progetto e non mi importava più del tempo che passava. German con questo film ci ha regalato l'eternità, un film per tutti i secoli, adatto all'oggi così come al Medioevo. In questi anni mi è capitato spesso di sentirmi chiedere dai giornalisti una descrizione di Hard to Be a God. Ebbene, io credo che il nucleo del film sia questo: ogni generazione vorrebbe cambiare il mondo, ma poi fallisce inesorabilmente. È una missione senza senso provare a cambiare una civiltà e allo stesso tempo non si può smettere di provarci.
Qual è il significato e l'importanza di questo premio a German? Marco Müller: Del premio ne parlavo da tempo discutendo con lo stesso German quando era ancora in vita. Non dimentichiamo che si tratta di un regista che ci ha costretto con ogni suo film a ripensare il nostro modo di guardare al cinema e qui, con Hard to Be a God, il suo discorso arriva all'apice. È riuscito a fare pochi film, cinque/sei, eppure è un cineasta che merita di entrare a far delle pagine più importanti della storia del cinema. Con i suoi lavori ha sempre esplorato terreni diversi, ha sperimentato, cercando però ogni volta di riflettere sul tracciato tra realtà e sogno. Eppure, purtroppo, i suoi film sono difficili da reperire in DVD, perciò abbiamo deciso che - anche con il premio - bisognava gridare l'importanza di questo regista.
Anche il lavoro sulla fotografia deve essere stato molto complesso. Yuri Klimenko: Sì, ovviamente, è stato molto difficile. Ci siamo impegnati tutti come se stessimo lavorando al nostro ultimo film. La forza del progetto e la capacità di German nel coinvolgerci ha man mano contagiato tutti quanti noi. E com'era lui si capisce dalla forza e dall'energia sconvolgenti di Hard to Be a God. Detto questo, sul piano tecnico, nel film non c'è nessuna innovazione. Abbiamo usato una tecnologia semplice e dunque la novità di quest'opera sta nella capacità di German di aver creato una immagine artistica, una sorta di nuova plastica dell'immagine, un nuovo modo di mostrare il mondo, senza esprimersi con particolari tecniche cinematografiche. Anzi, la forza è proprio quella di trovare una maggiore espressività accompagnandosi all'uso di mezzi semplici. L'enorme merito di Hard to Be a God è quello di averci mostrato in veste nuova, mai vista, il nostro mondo. Vi ricordo che il film è girato in pellicola, è in bianco e nero, e che questo supporto sarà l'unico con cui sarà possibile vedere questo film. Questa è la copia originale, su cui a breve faremo qualche altra piccola modifica.Aleksei German jr., dal suo punto di vista, dal punto di vista filiale, come è stata la lavorazionea questa impresa titanica? Aleksei German jr.: In realtà, io non ho mai assistito alle riprese. Mi rendevo conto naturalmente degli sforzi enormi con cui questo film veniva fatto. Mio padre era come uno sportivo impegnato in una gara di atletica pesante e costretto a lanciare una tonnellata di peso. Sentivo poi gli attacchi esterni che mio padre doveva subire, le critiche che venivano rivolte al film, per il fatto che era così lungo, ecc. E poi, le sue continue riflessioni intorno al progetto. Per tutti questi anni non ha parlato d'altro, viveva completamente immerso in Hard to Be a God. È stato uno sforzo immane e onnicomprensivo, come Tolstoj quando scriveva Guerra e pace. Mio padre in questi anni è stato un uomo posseduto dall'arte del cinema, dall'essenza del cinema.
Nel film sembra di riconoscere delle influenze pittoriche, in particolare da Bruegel e da Bosch. È così? Suo marito gliene aveva mai parlato? Svetlana Karmalita: No, non me ne aveva mai parlato, perché in famiglia ci siamo abituati a non dirci mai tra di noi quel che pensavamo. Quindi non vi posso dire quel che pensava, vi posso dire quello che vedevo. Certo, amava l'arte, ma non è che frequentasse così spesso i musei. La prima persona che gli citò Bosch in relazione al film lo lasciò stupito e poi rispose che probabilmente ce l'aveva in testa, ma non come riferimento voluto. In realtà io credo che si tratti di una coincidenza di sguardi sulla realtà, sul mondo. Sono delle combinazioni che il mondo - letto attraverso l'arte - ci offre.Leonid Yarmolnik: Vorrei aggiungere che negli ultimi 14 anni ho avuto a che fare con giornalisti che mi hanno fatto le domande più varie su questo lavoro. E per quanto cerchiamo di festeggiare German, non sarà mai troppo. Hard to Be a God è uno straordinario documento sull'umanità, un lavoro che, come hanno detto anche gli altri, ci ha contagiato. Per certi versi sono ancora malato e spero di non guarire mai, perché so che - grazie a German - sono stato un artista. Sono convinto che ogni vero, grande artista dubiti sempre di se stesso e del suo lavoro. Per quel che riguarda la lavorazione di Hard to Be a God, anche se era tutto pronto, c'erano tutte le scenografie, si trovava sempre qualcosa da perfezionare, da precisare, qualcosa che lui voleva sempre migliorare. L'unica chiarezza l'aveva quando sognava, perciò se sognava qualcosa relativo alla lavorazione del film, voleva dire che quell'aspetto era perfetto, completo. Tutti i film di German sono dedicati all'uomo, alla sua grandezza e alla sua malvagità.
In passato avevate parlato di questo film come di un film sull'amore. La pensate ancora così? Svetlana Karmalita: Sì, assolutamente. Quando sulla stampa russa, mentre il film era ancora in lavorazione, abbiamo cominciato a sentir parlare di Hard to Be a God come di un film terribile e angosciante, siamo rimasti tutti stupiti. Tutto il film è compenetrato di amore e di non indifferenza. Il personaggio interpretato da Leonid Yarmolnik tratta male i suoi schiavi, ma gli dedica anche attenzione, misericordia. Sì, è un film sull'amore.
Un ultima domanda a German jr. Il suo prossimo film sarà in bianco e nero allo stesso modo di Hard to be a God? Aleksei German jr.: No, il mio prossimo film sarà a colori. Penso comunque che non sia questa la sede giusta per parlare del mio cinema, del cinema che ho realizzato. Se dobbiamo parlare dell'opera di mio padre, mi sembra che non sia così importante se abbia girato in bianco e nero o a colori. Mi sembra piuttosto fondamentale la categoria della lingua e del linguaggio in cui si esprime il suo cinema. Il modo in cui vede il mondo, inventa e crea, la sua conversazione con il mondo. Questo film secondo me è l'esempio massimo di opera priva di compromessi, di un modo di fare cinema che rappresenta una sfida rispetto al contesto cinematografico dominante. È un film che ha riunito intorno a sé questo gruppo di persone - mio padre, mia madre, ecc. - con coraggio assoluto, a dispetto di tutto. Quel che è importante è che la prossima generazione di registi possa vedere un film così e capire in tal modo che un cinema privo di compromessi è sempre possibile. Penso che sarebbe bellissimo se Hard to Be a God fosse visto dal numero più alto possibile di giovani registi di tutto il mondo.