Lo schermo ancora nero lascia spazio a un'unica gigantesca didascalia: "Quando". Sentiamo la voce delle tre streghe, che completano la domanda che noi spettatori stiamo leggendo. "Quando ci rivedremo ancora noi tre?". È l'inizio del Macbeth di Joel Coen, piuttosto fedele, specie nel testo, alla tragedia di William Shakespeare che inseriva prepotentemente il mondo sovrannaturale nelle vicende scozzesi. Nell'adattamento cinematografico disponibile su Apple Tv+, Joel Coen sembra legare il mistero delle streghe a un discorso prettamente legato alla magia del cinema. Lo fa proprio con un film che sembra, invece, un'opera di teatro filmato, essenziale nella messa in scena, ma proprio per il carattere espressionista, fortemente legato a una dimensione di luci e ombre. Cinema, per l'appunto. Ed è così che l'inquadratura finale potrebbe nascondere un significato al suo interno che riguarda la natura del cinema stesso.
Il bello è brutto e il brutto è bello
Tragedia shakespeariana formata da conflitti, anche tra le parole che i personaggi pronunciano, Macbeth è un inno all'indefinibile, alle forze oscure che muovono l'animo umano, alla sete di potere che prima esalta e poi consuma. Lo dicono le stesse streghe all'inizio del film che, nella Scozia di Macbeth, "il bello è brutto e il brutto è bello". E, allo stesso modo, questo nuovo film di Joel Coen è insieme cinema e teatro, parola e immagine, in una lotta continua. Quando siamo pronti ad assistere alle immagini, lo facciamo con il rumore di un proiettore di diapositive, che lascia entrare un quadro in 4:3, nel classico e ormai obsoleto formato Academy, totalmente bianco. Luce pura, pronta a far entrare al suo ingresso le ombre. Quasi una dimostrazione della vecchia lanterna magica, prodromo del cinema, essenza stessa di ciò che crea un film. Le prime ombre sono quelle di un corvo che vola, animale che all'interno della storia simboleggia la dimensione magica e stregonesca. Tutto il cinema si può riassumere in questo modo: la luce sporcata dall'ombra. La magia della settima arte è tutta qua.
Macbeth, recensione: dalla Scozia con suono e furore
Agitarsi sulla scena del mondo
Come cambia il destino di un uomo grazie alla conoscenza del proprio futuro. Per Macbeth (personaggio) la profezia delle tre streghe è causa scatenante del suo desiderio di potere, tale da spingerlo a uccidere il re Duncan e l'amico Banquo. Una decisione che lo consumerà poco a poco, trasformandolo in un vero e proprio tiranno. A lui non rimane che morire per mano di MacDuff, che lo decapiterà. Il film Macbeth, invece, che proprio ponendo l'accento sul domani (è l'altra parola che compare come didascalia dopo il "Quando" iniziale) sembra riflettere sul cinema contemporaneo, creando un corto circuito tra dimensione teatrale, fedeltà al testo shakespeariano, due attori protagonisti come Denzel Washington e Frances McDormand che appartengono a una trascorsa generazione di attori, un regista come Joel Coen che, nel rinnovare attraverso un linguaggio post-moderno il cinema americano, ora si ritrova nella condizione di essere un vecchio Maestro della settima arte. E nel 2022, questo significa appartenere non più alla dimensione della sala cinematografica (sebbene in America il film sia stato proiettato anche al cinema), ma a una piattaforma streaming. Vecchio e nuovo, cinema e teatro, ma anche cinema e televisione duellano e si confrontano, come le luci e le ombre, il bianco e il nero, il destino profetizzato e le decisioni dell'uomo. Appare quindi coerente con il discorso trovarsi di fronte a un film che sembra prendere la lezione del noir classico americano e l'espressionismo tedesco. Proprio quest'ultimo tipo di messa in scena, legato al soprannaturale e alle sensazioni interiori, si sposa meravigliosamente con la tragedia di Macbeth.
Una storia che non significa nulla?
Macbeth è vinto, l'animo umano in tutti i suoi difetti trova la fine. Il lieto fine della tragedia shakespeariana trova in questo nuovo adattamento cinematografico un'ultima punta oscura. La storia di Macbeth è finita, la bobina giunge al termine, eppure in quell'ultima inquadratura finale Joel Coen sembra riflettere sul cinema stesso. Si parte dalla strada illuminata dal sole, dal vento che muove l'erba e da un cavallo che galoppa. Poi si alza uno stormo di corvi, ancora una volta la magia e l'inspiegabile, prende il volo. La macchina da presa si alza con loro, allontanandosi dalla dimensione terrena e rientrando in quella dell'etere. Le ali nere dei corvi si pongono tra il nostro occhio e la luce del sole, che assomiglia sempre di più alla luce del proiettore, lo stesso che aveva dato avvio al film. In quella luce solare si nasconde il potere misterioso del cinema, si svela la sua natura magica. Poi, in chiusura, il rumore di una chiusura. Il film è finito. La storia di Macbeth si trasforma in una riflessione mortifera sul cinema "di una volta", una storia che di per sé, come dice la famosa frase della tragedia, "non significa nulla", come la vita di un uomo. Ciò che conta, invece, è quello stormo che oscura il sole, quel movimento di ali liberatorio che crea ombre viventi. La magia del cinema, vera regina incoronata, che infesta il mondo e lo forgia.