Quattro personaggi, quattro ottimi interpreti, per le 4 metà del titolo del film disponibile su Netflix dal 5 gennaio e già tra i più visti in piattaforma (al terzo posto nella top 10 generale, al primo tra i film). Sono l'anima di una storia che si muove su due binari che si incastrano e sovrappongono, proponendoci due diverse realtà in cui i quattro single interpretati da Ilenia Pastorelli, Matilde Gioli, Giuseppe Maggio e Matteo Martari finiscono per cercare di dar vita a delle relazioni sentimentali differenti tra loro. A raccontarci questa commedia romantica sui generis è il regista Alessio Maria Federici, con cui abbiamo avuto modo di scambiare quattro chiacchiere per farci spiegare le scelte di casting e messa in scena, oltre che il suo punto di vista sull'idea di anima gemella alla base del film.
Dar vita al film
Partiamo dall'inizio: come nasce 4 metà, sia come spunto narrativo che come costruzione vera e propria del film? Cosa è venuto prima: cosa raccontare o come?
Alessio Maria Federici: Faccio una piccola premessa: io non sono un artista, sono uno shooter. Il libro che leggo la sera prima di dormire sono le istruzioni della nuova macchina da presa. Quando finalmente Cattleya mi ha proposto un progetto che fosse diverso da quasi tutte le commedie che ho fatto, mi si è accesa una luce. Sarà stato il fatto che stavo chiuso dentro casa da troppo tempo, ma per la prima volta ho capito che potevo raccontare delle storie che erano umane. Dopodiché mi sono reso conto che la difficoltà di questo progetto è che io delle storie d'amore andavo a raccontare le parti più facili, tutti gli apici, e soprattutto che non dovevo costruire quattro personaggi, ma otto. E qui sbagliavo: perché invece i personaggi erano sempre gli stessi che si declinavano a seconda della storia del film, a seconda di quello che era il contesto. Ho accettato subito di fare questo film, perché avevo la possibilità di raccontare a 45 anni delle storie che sembrano più adatte per quelli con dieci anni meno di me, ma che a 45 anni ho potuto raccontare per la prima volta con una apparente maturità. Da un punto di vista tecnico mi è sembrato fantastico perché potevo usare un mezzo nuovo che si chiama Trinity, che è una macchina da presa attaccata su un bastone che sta uccidendo la steadycam, perché permette di fare dei movimenti perfetti e mi permetteva di evitare campo, controcampo e totali, di creare una messa in scena in cui gli attori, avvicinandosi o allontanandosi dalla camera, andavano a enfatizzare o distaccarsi dal momento narrativo. Questo ha condizionato tutte le scelte, per esempio ho selezionato location che fossero molto ariose in cui potessi raccontare, e mi sono fatto tante domande sulla romanità: ho cercato di tenere la Pastorelli meno romana possibile, Maggio è romano ma gli altri due sono milanese e veronese.
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Un altro punto essenziale di 4 metà è il ritmo, la leggerezza con cui viene raccontata la storia. Che scelte hai fatto per mettere in piedi la storia e decidere cosa includere, e magari cosa tener fuori, per ottenere questo risultato?
Ritmo e brio sono dati un po' da come giro, ma anche da come è stato montato il film. Una delle prime caratteristiche tecniche è la fortuna di avere una persona di cui ho molta fiducia al montaggio e il sapersi affidare. Facciamo un mestiere in cui non possiamo saper fare tutto. Non sono Cuaron, non posso fare la luce, non posso montare il film, devo fidarmi e lasciarmi andare. È stato come in una storia d'amore o forse, più semplicemente, come una ricetta: ho cercato di portare tutti gli ingredienti in cucina ed esser certo che fossero tutto giusti i tempi. Da un punto di vista tecnico la grande differenza è stata di essere tornato indietro. Ho chiesto alla produzione di non intralciarmi e farmi fare anche quattro ore e mezza di prove. Perché la cosa fondamentale era la sinergia e la chimica tra gli attori. Ho girato tutto il film scegliendo due ottiche di riferimento, ho usato delle ottiche che si chiamano Pancroft che sono rincamiciate, che hanno una vecchia visione cinematografica del vecchio super 35 con cui ho potuto scegliere sempre una densità di colore che facesse sì che i miei attori fossero brillanti in primo piano, mentre potessi essere io a scegliere quanto e come sfocare gli sfondi. Questo per far sì che lo spettatore si concentrasse su quelle emozioni che cercavo di raccontare. In alcuni casi penso che ci siamo riusciti e ho la sensazione che come confezione è molto diverso dai film che ho fatto fino a oggi, ma ha anche una bella pasta e un ritmo dato dalla macchina che non si ferma mai. Questa è stata la scommessa che vedremo se saremo riusciti a vincere.
Le 4 metà della storia
Un aspetto importante per la riuscita del film è il cast. Per quali caratteristiche hai scelto ognuno degli interpreti principali?
Prima di tutto sono voluto andare contro gli stereotipi, laddove il mio film inizia con una scena in cui si parla proprio di questi. Sarebbe stato più semplice far fare il personaggio dimesso alla Gioli, alla milanese perbene che lavora in ospedale, e mettere invece Ilenia a fare la rampante togliendole un po' di aggressività romana ma mantenendola decisa. O mettere Martari a fare l'avvocato bello e tenebroso e tenere Maggio a fare il libraio chiedendogli un altro tipo di interpretazione. Ho parlato molto con gli attori, sono voluto andare sull'umanità. Mi sono reso conto che per esempio Ilenia ha una profondità e umanità che non avevo mai conosciuto, etichettandola in modo gretto e radical come attrice da commedia. Mi sono reso conto anche che Matilde aveva voglia e bisogno di uscire dallo stereotipo dei ruoli che aveva sempre fatto, o come Maggio sia un grandissimo interprete, uno che si applica come poche volte ho visto nella mia ventennale esperienza. Martari è stato una vera sorpresa, mi sono trovato a confrontarmi con un veronese di poche parole in contrasto al mio modo di essere. Molte delle nostre letture diventavano quasi una dinamica di analisi, perché abbiamo dovuto riportare nei personaggi molte delle nostre esperienze umane. La grande fortuna di tutta l'esperienza è che le prime quattro giornate di ripresa le abbiamo fatte a Lisbona, in pieno lockdown, che era molto più rigido del nostro. Questo vuol dire che dalla location ci portavano in albergo dove dovevamo mangiare in stanza da soli, e facendo queste letture ci siamo confrontati e ci siamo raccontati anche delle cose del nostro passato. Su alcune cose li ho trovati così giovani che per la prima volta ero io quello con più esperienza. Quindi con gli attori abbiamo costruito tutto sull'umanità, ma non è stato facile per loro, perché per come muovevo la macchina, i movimenti che dovevano fare erano predefiniti.
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Con tante prove e movimenti così rigidi, c'è stato anche spazio per un minimo di improvvisazione sul set o vi siete mantenuti fedeli il più possibile allo script?
Assolutamente, perché la rigidità apparteneva alla macchina, l'operatore è stato il mio occhio che si muoveva, l'improvvisazione emotiva era necessaria. Il film potevo montarlo con cinque o sei spigolature diverse, potevo rendere meno cattivo Maggio e più cattiva la Gioli, per esempio. La loro improvvisazione di intenzione e umanità era libera, perché era un testo che raccontava di noi stessi, non doveva essere chiuso. Ho discusso con l'editor per far sì che ci fosse un cattivo emotivamente, perché mi serviva per far vedere le diverse reazioni delle donne che vengono spesso raccontate in modo sbagliato.
Il punto di vista di Alessio Maria Federici
A fine film il padrone di casa spiega il suo punto di vista sull'idea delle mele e delle metà. Qual è la tua? Credi nell'idea di un'anima gemella?
Credo, e lo dico sulla mia pelle, che sia come si dice nel film, che nella vita ci plasmano il contesto, le situazioni. La vita di una coppia nasce radicalmente quando nasce un bambino e non è un caso la scelta che fa la Gioli nel film. Quello che mi ha cambiato più la vita non è stata veder giocare Totti o fare il regista, ma quando mi hanno messo in mano una cosa che gocciolava sangue a cui dovevo tagliare il cordone ombelicale, o quando ho detto a mia moglie "ti amo, scelgo te" e ho smesso di fare il cretino. Noi siamo quello che la vita ci permette di essere in base alle nostre scelte. Siamo noi a fare le scelte, ma è il contesto che ci condiziona.
Quali sono i tuoi modelli e le tue ispirazioni? Per questo film nello specifico ma anche in generale?
Per molti miei progetti ho dovuto guardare a quello che c'era scritto sul foglio, alcune cose non potevo permettermele. Uno dei film che ha stravolto la mia esistenza è Roma, un capolavoro. Il modo in cui lui riesce a essere dentro o fuori la storia usando o il carrello o la macchina è qualcosa di emozionante. Le mie grandi passioni sono i fratelli Coen o Tarantino. Quando scorro le opere di Tarantino, tolto Kill Bill, non riesco a trovare un film che non sia un'opera d'arte. Ma non bisogna mai dimenticarsi da dove si proviene e ho avuto la fortuna di fare l'aiuto regista a Paolo Genovese, con cui ho un rapporto molto bello, o lo stesso Miniero, che è uno che riesce a capire immediatamente cosa fa ridere, mentre Paolo sa raccontare al grande pubblico cosa sa emozionare. Ho avuto anche la fortuna di fare tre o quattro spot con Sam Mendes e mi ha fatto capire quanto fosse importante la messa in scena, far sì che gli attori in quello che facevano nella scena fossero legati a quello che stavano dicendo.
C'è la tua firma anche in un altro successo italiano e internazionale Netflix di quest'anno, che è la serie Generazione 56K. Come ti sei trovato in quel progetto in cui non sei l'unico regista?
Ho fatto dieci sedute d'analisi su questo! Faccio un mestiere in cui quando entro in una stanza sono il primo a parlare e l'ultimo, chiedo e poi dico cosa voglio. Non essendo un artista, ma uno shooter, è una cosa che faccio a cuor leggero. Lì sono stato fortunato e non riuscirà mai di ringraziare né Francesca Longardi che è la produttrice, né Francesco Ebbasta dei TheJackal, perché mi hanno inserito in un progetto che era un gioiellino per come era scritto. Mi hanno dato la possibilità di fare le ultime quattro puntate, quindi è come se mi avessero fatto entrare in campo come Totti in Italia - Australia a calciare il rigore decisivo. E in più mi hanno dato la possibilità di confrontarmi con un formato narrativo che per me era diverso dal solito: i 28 minuti rispetto ai 90 sono tutta un'altra cosa. Ed è stata un'esperienza bellissima.
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Lo streaming, ma Netflix in particolare, ha cambiato le abitudini degli spettatori. Da autore che ha lavorato sia per il cinema che per lo streaming, come vedi la situazione?
La scorsa settimana mi hanno invitato a una riunione di registi e quando i colleghi parlavano della sala, di cosa mancava e di come lo streaming rischia di rovinarci, sono intervenuto ricordandogli che quando arrivarono le automobili in Germania tutti pensavano che i cavalli non sarebbero mai stati messi da parte, e che mentre noi parlavamo c'era qualcuno dentro una metropolitana che stava guardando il film di Sorrentino su un telefonino. Questa è la nostra realtà ed è su questo che dobbiamo confrontarci per continuare a crescere in qualità. Perché a questo punto sogno che uno che sta guardando un mio film sul cellulare si distrae e perde la fermata. Questo deve diventare il nostro obbiettivo, che non è così diverso che in precedenza: prima emozionavamo qualcuno che aveva fatto una scelta, ora abbiamo un pubblico molto più vasto che abbiamo la possibilità di emozionare. Non è più un'operazione di marketing, non andiamo più a centrare un target: il nostro target è la comunità nella quale viviamo.