Strani davvero i tredici anni. Una volta compiuti ecco che si è magicamente abbastanza grandi per avere i primi batticuori e le prime responsabilità, ma si è ancora troppo piccoli per fare scelte importanti, vedere un film horror al cinema, o rientrare dopo cena a casa. Bloccati in un limbo esistenziale, i tredicenni desiderano diventare immediatamente adulti, senza spesso accorgersi di quanto siano felici senza sapere di esserlo.
Strani davvero i tredici anni. Seriosi, ma infantili; pieni di divertimento, e già così infarciti di piccole sofferenze.
E allora non c'è modo migliore di raccontare questo periodo della vita, tra infanzia e adolescenza, che quello del musical, genere così colorato, movimentato, ma a tratti anche profondo e introspettivo. Come sottolineeremo in questa recensione di 13: il musical, il nuovo film diretto da Tamra Davis e basato sull'omonimo spettacolo di Broadway, intende narrare con sincerità, ma senza grandi pretese, gli ostacoli che iniziano a frapporsi lungo la via dei prossimi cittadini del futuro.
Eleggendo a guida privilegiata il giovane Evan Goldman (Eli Golden) il film cerca di tradurre in linguaggio prima musicale, e poi cinematografico, le difficoltà che sono chiamati ad affrontare i tredicenni di oggi, tra divorzi, traslochi, primi amori e amicizie tradite. Eppure, c'è troppo zucchero ad avvolgere questi passi di danza, troppo ottimismo ad avvolgere queste esistenze, tanto da rendere 13: il musical un concentrato di illusione, in un mondo di promesse non mantenute.
13: IL MUSICAL: LA TRAMA
La soglia dei fatidici tredici anni è ormai a un passo di danza per il giovane Evan Goldman. Un traguardo importante e atteso, soprattutto per un ragazzo come lui, cresciuto in una famiglia di fede ebraica. Tredici anni per Evan significano infatti festeggiare il proprio Bar mitzvah. Ma ciò che doveva corrispondere a giorni di festa, si tramuta ben presto in delusione e rabbia. I suoi genitori decidono infatti di divorziare, costringendo il ragazzino e la madre (Debra Messing) a lasciare New York per trasferirsi in Indiana a casa della nonna materna (Rhea Perlman). Ciò che si presentava come un incubo si rivelerà ben presto per Evan in una nuova occasione di crescita, soprattutto personale. E così tra nuovi amici (e nemici), un Bar mitvah da organizzare in maniera impeccabile, e nuovi mondi da scoprire, i tredici anni per Evan avranno tutto un altro sapore.
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THIRTEEN YEARS WHY
Riuscire a raccontare i fatidici tredici anni senza scadere nel retorico, o nel baratro del patetismo, non deve essere facile. Ci vuole un tocco di ottimismo, soprattutto per chi, a questa età, ha un piede nell'adolescenza e il cuore ancora nell'infanzia. Ci vuole speranza, perché le prime delusioni e le prime responsabilità sono baratri ombrosi che fanno paura, e lasciano senza respiro. Allo stesso tempo ci vuole un pizzico di onestà, rivelando senza paura ai propri giovani spettatori che ciò che saranno chiamati ad affrontare non sarà un viaggio privo di ostacoli, ma che con la giusta dose di coraggio e perseveranza, nulla sarà insormontabile. Raccontare i tredici anni non è facile, e Tamra Davis, affidandosi completamente ai dialoghi e alle canzoni che hanno reso 13: il musical un successo di fama mondiale, ci prova davvero a narrare questa chiave di (s)volta nella vita di ognuno, elevando la vita di un tredicenne qualunque come Evan Goldman a simbolo universale di cambiamenti, paure e timori tipici dei tredici anni. Eppure, in questo saggio sulla crescita, troppe volte la penna viene intinta nell'inchiostro dell'ottimismo, lasciando che l'universo qui creato cada nelle grinfie di uno spettacolo allegro e confortante, sminuendo quelle pagine colme di ansie e insicurezze che avrebbero reso il racconto più vero, più reale, più sincero.
DANZA, PREGA, CANTA
Basta un accordo, ed ecco che la camera di Tamra Davis prende vita. La regista si affianca perfettamente al ritmo coinvolgente delle parole cantate a gran voce, alla dinamicità di passi di danza lanciati a perdifiato, per poi rinchiudersi in una granitica fissità nel momento in cui la musica si spegne e i piedi si fermano. Le riprese si fanno così canoniche, immobili, limitate a immortalare i propri personaggi come parti di un tutto, o individui messi in disparte. Una semplicità di ripresa, quella della Davis, che combacia perfettamente con una semplicità di racconto un po' troppo estremizzata. Se 13: Il Musical prende a piene mani l'essenza più spensierata dei musical firmati Disney Channel, a livello puramente tecnico supera di gran lunga i suoi diretti discendenti, infarcendo la propria opera di testi più profondi e complessi a livello ritmico e testuale, e arricchendola di coreografie dinamiche e ben costruite. Tale forza va però a contrapporsi a una estrema semplicità delle parti dialogate che va a indebolire e svilire un racconto apparentemente più profondo nelle intenzioni, e al limite della superficialità nella pratica. È pur vero che quella qui ricercata è una semplicità che ben si confà all'età media del proprio target di riferimento: quello di spettatori pre-adolescenti desiderosi di approcciarsi al mondo dei grandi, senza dimenticare quella luce infantile che li illumina divertendoli e infondendoli di ottimismo.
Eppure, i tredicenni di oggi non sono più quelli del 2008 a cui il musical originale di Broadway era destinato. Quelli contemporanei sono giovani bombardati da una sovraesposizione mediatica, direttamente coinvolti nel mondo dei social media e in perpetuo contatto con produzioni cine-televisive più profonde, drammatiche e complicate che li rendono più grandi di quelli che sono. I teenager di oggi sono ragazzi e ragazze che crescono in fretta, chiamati dalla società a velocizzare i tempi, il che li spinge a non ritrovarsi quasi più in una semplicità narrativa e registica come quella proposta da 13: il musical, retrocedendo il film a un'opera maggiormente adatta a un pubblico ancora più inferiore a livello anagrafico, come quello dei bambini dai 6 agli 11 anni. La stessa fotografia è un pennello leggero che tutto illumina e tutto colora, senza lasciare traccia di un'ombra di sconforto pronta ad adombrare il volto dei protagonisti. Tutto è perfettamente illuminato; tutto è perfettamente colorato; tutto è troppo edulcorato, e questo non fa altro che rendere il film un sogno, più che uno sprazzo di realtà.
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ESSERE EVAN GOLDMAN
Se in Caro Evan Hansen attraverso le parole ricolme di speranza e paura si narrava lo spettro della solitudine e dell'incomprensione, questa volta un altro Evan - Evan Goldman - assurge al ruolo di guida privilegiata per mostrare agli altri, e ricordare agli adulti, cosa significa avere tredici anni. Lo fa cantando con spensieratezza, a pieni polmoni, con il sorriso sulle labbra, perché anche questo è avere tredici anni. Eppure, in questo fiume di energia, qualcosa manca, deviando il corso delle acque e impedendo al protagonista di investire con la sua carica propositiva il proprio pubblico. Evan non conosce mai veramente quel dolore necessario che lo spinge a maturare, cambiare, rinascere sotto nuove vesti. Lungo il suo percorso non vi è nessuna caduta dell'eroe, ma solo qualche leggero inciampo.
Non scaturisce, cioè, quella magia necessaria ad aprire il varco dell'immedesimazione spettatoriale. Anche nella delusione iniziale per il divorzio dei propri genitori, o il senso di colpa che lo investe per aver tradito l'amica Patricia, non si percepisce mai quella sofferenza piena, che investe grandi e piccini. Tutto è dato in maniera superficiale, raccontato con uno sguardo a tratti sereno, e per questo in pieno contrasto con la portata delle parole dette, pensate, o cantate. Quello di Evan è un percorso lineare, mai evolutivo; non sussiste nessun cedimento, ma solo un cammino totalmente piatto. Questo riduce il personaggio non più a vestire i panni dell'eroe, ma di un semplice co-protagonista. Privo di un arco narrativo compiuto, dove l'inizio è separato dalla fine da un cambiamento e una maturazione, il personaggio di Evan è messo alla pari di qualsiasi altro personaggio in campo. Manca di una forte caratterizzazione, la stessa che invece permette di riconoscere subito la giovane Lucy come la villain della storia. Eli Golden ce la mette tutta a dare corpo, anima e voce al suo Evan, convincendo soprattutto nelle parti cantate; ciononostante, complice la giovane età e una sceneggiatura non rivista, o riadattata ai tempi odierni, il suo Evan si ritrova bloccato in un eterno slancio verso un'evoluzione che non avverrà, e una personalità solamente tratteggiata e mai completata.
13: il musical centra il punto della sua stessa natura: intrattiene, diverte, nel momento in cui si balla, si canta, per poi bloccarsi come statuine di cera al centro del palco. Soggiogato da una estrema semplicità, non riesce a far trasparire quel messaggio profondo che si muove sottopelle. Nato per parlare agli adolescenti, il film finisce solo per sospirare il motivo principale e d'impatto personale al centro del discorso. Inficiato di fin troppo ottimismo, 13: il musical perde il proprio obiettivo di narrare le difficoltà nascoste dietro la crescita dei propri protagonisti e, per riflesso, dei propri spettatori. Le stesse canzoni, per quanto coinvolgenti e ben armonizzate siano, colpiscono sul momento, ma senza rimanere in testa, finendo per perdersi per ben presto, come ben presto si perderà il ricordo di questo film, lasciato a nascondersi in un cassetto della mente insieme ai ricordi di noi a tredici anni.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di 13: il musical sottolineando come il film disponibile su Netflix intenda riprendere e riproporre in maniera fedele l'originale di Broadway per raccontare gioie e dolori dei tredici anni. Eppure, i tempi sono cambiati e una certa, estenuante semplicità, poco si confà allo spettatore medio di oggi, tredicenne compreso.
Perché ci piace
- I brani cantati.
- La dinamica delle coreografie.
- Il desiderio di raccontare un'età fragile come quella dei 13 anni.
Cosa non va
- La semplicità del racconto.
- La fotografia tutta, troppo, illuminata.
- La caratterizzazione del protagonista.