Alice nel paese dei compromessi
Tanti, troppi, i compromessi che siamo costretti a fare in questo periodo storico di grande crisi, c'è chi dopo aver lavorato una vita si ritrova con una pensione da fame; chi ha studiato una vita si ritrova a fare mestieri che non avrebbe mai immaginato di fare, sottopagati e senza alcuna garanzia per il futuro; chi dopo aver sognato di fare carriera viene scalzato dal figlio o dal nipote di qualche dirigente senza troppi problemi; chi dopo una giovinezza di sacrifici decide di mettere su famiglia e si ritrova con un mutuo da pagare, senza più un lavoro e perde tutto. E poi ci sono le donne, che devono soffrire e faticare molto di più degli uomini per riuscire a conquistarsi un posto dignitoso in una società come quella italiana che non vuole scommettere sulle loro capacità organizzative e gestionali e ancor di più sul loro spirito di abnegazione, ma si limita a scommettere sulla loro esteriorità.
E' la triste realtà con cui si deve scontrare la nostra Alice che a dire il vero, fino al momento in cui non si ritrova in un solo colpo vedova e sul lastrico, non può dire di essersi poi tanto impegnata nel cercare il suo posto nel mondo del lavoro. Trentacinquenne romana troppo presa dall'apparire per dedicarsi all'essere e indaffarata ad organizzare la sua vita dorata nella villa dell'Olgiata con tanto di servitù, si ritrova costretta a lasciare la casa e a trasferirsi in una topaia nel palazzo del quartiere multietnico del Quarticciolo in cui vive il suo tuttofare Aziz insieme a tutti suoi amici e vicini. Le chiacchiere stanno a zero, tutti i beni sono sequestrati, c'è un debito enorme da saldare per evitare di andare in galera e di perdere la custodia del piccolo Filippo. Ci vuole un lavoro da mille euro al giorno per arrivare alla cifra richiesta dalla società finanziaria e così alla donna non rimane altra alternativa: deve vendere il proprio corpo e diventare rapidamente una escort. Il mestiere più antico del mondo le appare improvvisamente quello che più si avvicina alle esigenze della società moderna perchè in assoluto propone la figura professionale meglio pagata di tutte.
Una storia in apparenza (e in sostanza) assai tragica che Massimiliano Bruno riesce a raccontarci, nel film che segna il suo esordio da regista, con un tono scanzonato ed un linguaggio popolare che conquistano offrendo siparietti davvero unici senza sosta dall'inizio alla fine. Attore (in un piccolo ma strepitoso cammeo), regista e co-sceneggiatore del film insieme a Edoardo Falcone (a partire da un soggetto di Fausto Brizzi), Bruno lascia da parte la retorica, i buonismi, i luoghi comuni e le sdolcinatezze delle commedie romantiche e ci regala una frizzante fiaba metropolitana a lieto fine che non lesina cinismo e momenti drammatici per restituirci il ritratto di un paese in cui non c'è più tempo né occasione di scegliere, né spazio per i pregiudizi e per il razzismo. Oggi in Italia si cerca solo di sbarcare il lunario giorno per giorno, adattandosi, accettando compromessi nei momenti di difficoltà, talvolta anche calpestando i propri principi e la propria moralità.
Oggi i veri immigrati siamo noi italiani, che ogni giorno che passa ci rendiamo sempre più conto di quello che hanno sempre sofferto gli extracomunitari costretti a lavorare in nero e a sopravvivere giorno per giorno senza poter guardare oltre, tutti quelli che sono approdati nello Stivale in cerca di un lavoro e di qualche sicurezza.
La crisi economica e del lavoro combinata al racconto di un pittoresco spaccato di periferia evita alla storia di essere inghiottita dall'imbarazzante attualità politica che fa capolino solo in qualche immancabile momento che vorremmo tanto fosse frutto solo del delirio satirico degli autori.
In Nessuno mi può giudicare si ride continuamente e di gusto, l'irriverenza e quel tocco assai poco politically-correct della sceneggiatura coinvolgono tutto e tutti: i neri e i razzisti, gli extracomunitari e i romani, i ricchi e i poveri, gli snob e i coatti, i politici come i padri di famiglia col vizietto, falsi perbenisti e moralisti. Tutto questo passa sotto la lente d'ingrandimento di Bruno e dei suoi collaboratori che hanno lavorato di cesello su ogni personaggio, dai principali a tutti quelli di contorno, sfornando una battuta dopo l'altra, trascinando e mai trascendendo. Gli attori, come era ovvio che fosse, dal momento che sono tutti amici di Bruno, danno tutti un contributo fondamentale alla riuscita del film a partire dai due protagonisti Paola Cortellesi e Raoul Bova, in stato di grazia e rigorosamente fuori parte rispetto al loro solito, affiancati da un gruppo di bravissimi caratteristi che si ritrovano invece a interpretare ruoli già lungamente rodati in passato.
Un plauso va anche a Raoul Bova, che svestiti i panni del poliziotto e del rubacuori romantico, sembra aver finalmente trovato la sua dimensione nei panni del ragazzo semplice alle prese con le difficoltà della vita.
Grottesche dichiarazioni d'amore, cene di quartiere in terrazza sotto le stelle a cantare e ballare, bizzarre lezioni di seduzione e momenti di introspezione si alternano in un film di quelli in un cui è sempre più difficile imbattersi: spietato, beffardo, disilluso, avvincente, vivace, acuto e senza l'ombra di una sbavatura nella recitazione.
Una rarità nell'epoca delle commedie adolescenziali, dei film generazionali, dei film seriali che vanno a ripescare i grandi classici del nostro cinema pur di incassare qualche euro. Una rarità in un'epoca in cui risulta sempre più difficile permettersi una serata al cinema che sappia regalare qualche sorriso vero.
Movieplayer.it
4.0/5