Anche i pazzi sanno amare
Una nonna che è sempre stata vecchia, fratelli "burini" che pagano donne che sembrano venire da Marte, una madre gialla, con la testa fasciata e "incantata": l'universo del piccolo Nicola è un mondo che assomiglia a quello di Tideland, uno spazio cupo e inesorabilmente nichilistico che sottrae le speranze e nega la luce, ad eccezione di quella della corrente elettrica che somministrano nei manicomi. Il bambino si rifugia così in una dimensione che non appartiene alla normalità: mangia ragni per fingersi eroe e conquistare il cuore di Marinella, una piccola "Madonna tascabile", ingurgita caramelle credendo, quando glielo raccontano, che siano pasticche marziane, mette in tasca un cremino perché uno solo non può competere con l'idea di 10, 100, 1000 altri cremini che un rude padre non gli comprerebbe mai, detesta un compagno di classe che sa fare magie e cerca di competere con lui dicendo di saper fare miracoli. Ma la sua ingenua fantasia viene scambiata presto per pazzia e finisce a passare il resto dei suoi giorni in un istituto, a prendere pasticche, ad aiutare nella spesa una suora che ha problemi di flatulenza, ad inventarsi un amico che gli regge il gioco e condivide con lui un'identità martoriata quotidianamente. E così la sua vita diventa un riflesso dei piccoli sogni e delle bizzarre invenzioni di quand'era bambino, del tempo in cui aveva creduto che le infermiere, le suore, i "poveri matti" e il direttore fossero tutti santi e che l'istituto fosse protetto da cento cancelli.
Sembra tratto da un'opera di Beckett l'esordio cinematografico dell'eclettico e versatile Ascanio Celestini, che dopo aver dato prova delle sue capacità di scrittore, di attore e di regista a teatro adesso debutta anche nelle sale confermando il talento e l'eccezionalità di una personalità che sa riflettere intelligentemente sulla realtà. Ma la storia che ci racconta è lontana dall'essere nonsense, sebbene i fili della razionalità, a cui ci hanno abituato gli standard del cinema italiano contemporaneo, la spingano oltre i bordi di una medietà ordinaria: La pecora nera tratteggia un personaggio che faremo fatica a dimenticare, un protagonista che inizialmente assomiglia al piccolo protagonista del poetico Nel paese delle creature selvagge, ma che progressivamente ci scaraventa, senza farci paura perché sa anche divertirci, in un altrove buio, che confonde l'ordine e la temporalità mentre è chiuso dietro le sbarre di un luogo inquietante come il manicomio. L'alterità di Nicola, ingenerata dalla "santa" pazienza di chi lo circonda e lo crede, o vuol crederlo, "suonato" e degenerata in età adulta in seguito a una delusione d'amore - perché Celestini sembra volerci ricordare che anche i pazzi possono amare - si fonde delicatamente con il difficile tema della condizione degli internati, affrontato in maniera originale senza il ricorso a fronzoli visivi sottovuoto. Se nella società l'individuo ha difficoltà a farsi comprendere, tanto da avere bisogno di tane mentali in cui rifugiarsi, in manicomio le nuvole, per citare Pasolini, non sembrano lontane, ma vengono sottratte e non ci sono più: l'insanità mentale tenta di esprimersi in un linguaggio poco decodificato e viene castigato tra le quattro mura stinte di istituti affidati alle serve di un "Dio che non li vuole", come recitava il bel testo di Simone Cristicchi. La bravura di Celestini sta nel raggiungere un armonioso equilibrio mentre mostra allo spettatore le pericolose dicotomie sano di mente-pazzo, luce-buio, società-individuo, amore-paura, sullo sfondo di una maternità quasi mostruosa, con una singolare naturalezza visiva, che i flash-back contribuiscono ad approfondire piuttosto che frantumare. Le immagini sono scandite, come in un sincopato carillon, dalla voice over dell'autore-attore che riecheggia vecchi motivetti e fanciulleschi suoni onomatopeici, che ci accompagnano come una commovente nenia nel baratro di un borderline che il piccolo Luigi Fedele, Ascanio Celestini e Giorgio Tirabassi interpretano magistralmente e consegnano a un cinema stra-ordinario.