Aspettando Godard e citando Truffaut
Curioso che in Due vite per caso aleggi in maniera quasi beckettiana il "fantasma" di Jean-Luc Godard ("Aspettando Godard", oltre che il titolo provvisorio del film, è anche il locale un po' indie in cui si ritrovano i protagonisti della storia), ma poi si finisca per citare soprattutto François Truffaut. Il lungometraggio d'esordio di Alessandro Aronadio, in concorso nella sezione Panorama del Festival di Berlino, infatti chiama in causa parecchie volte I quattrocento colpi e la sua celeberrima sequenza finale. La fuga sfrenata e liberatoria del piccolo Antoine Doinel è dapprima al centro di una lezione condotta dall'irresistibile professore di cinema Tatti Sanguineti, e poi compare furtivamente come immagine rubata nel grigiore di una caserma dei carabinieri.
Ma a pensarci bene non è poi così strano che il giovane regista palermitano (forse desideroso al suo esordio di evocare alcuni suoi numi tutelari, proprio come ci si vota ai santi prima di intraprendere una perigliosa impresa) faccia riferimento a quelli che sono probabilmente i due autori più differenti e distanti della Nouvelle Vague francese sia per convinzioni ideologiche, sia per l'approccio generale nei confronti della Settima arte. Fin nella pratica citazionista Due vite per caso dimostra quindi di possedere un'anima coerentemente duplice: scissa in intrecci narrativi paralleli, oscillante su diversi generi, ambiguamente incerta tra il campo e il controcampo di una stessa immagine. Liberamente tratto dal racconto Morte di un diciottenne perplesso di Marco Bosonetto, il film è un'inusuale riflessione sul tema del doppelgänger (non a caso al centro della tesi di laurea del regista) e un interessante esercizio di stile sulla scia del "what if", ovvero delle storie a bivi che si biforcano a partire da un evento causale solo in apparenza insignificante.
E così l'esistenza del poco più che ventenne Matteo (un ottimo Lorenzo Balducci) può intraprendere due parabole completamente divergenti a seconda che sia coinvolto o meno in un incidente d'auto con una pattuglia di poliziotti in borghese. Nel primo caso il ragazzo subirà un brutale e ingiustificato pestaggio da parte degli agenti, in seguito al quale rimarrà traumatizzato ma acquisterà anche il coraggio di ribellarsi e di lottare contro il conformismo imperante della società civile. Nel caso opposto, invece, Matteo abbandonerà qualunque illusione di cambiamento e si omologherà alla piattezza di una vita ordinaria, finendo per divenire perfino egli stesso un poliziotto. Paradossalmente è proprio l'evento traumatico a innescare una positiva reazione di rabbia e di ribellione in Matteo; mentre all'opposto il suo "lato oscuro" è alimentato dalla tranquillità borghese e dalla mancanza di consapevolezza nei confronti del mondo che lo circonda. Con un finale che rievoca la ferita ancora aperta del G8 di Genova, pervaso dal sottofondo di telegiornali che documentano l'ondata di intolleranza e di oscurantismo in cui negli ultimi anni è sprofondato il nostro Paese, Due vite per caso sembra partire come una placida commedia giovanilista (di quelle che affollano sempre di più il nostro cinema) e invece rivela ben presto il suo intento impegnato e politico. Un'opera decisamente ambiziosa quella di Aronadio, nella sua volontà di intrecciare l'analisi del reale con la sua sublimazione fantastica e cinematografica, mirando a una precisa poetica di stampo autoriale. Come spesso capita negli esordi, l'entusiasmo della "prima volta" prende in alcuni casi il sopravvento, lasciando il campo a qualche ingenuità e uno sviluppo narrativo troppo programmatico. Ma Aronadio, che aveva già maturato diverse esperienze come aiuto regista nei film di Giuseppe Tornatore e Ciprì e Maresco, dimostra di conoscere bene la macchina cinematografica e di saper gestire con efficacia l'ottimo cast d'attori (oltre a Balducci, tra gli altri anche Isabella Ragonese, Riccardo Cicogna, Ivan Franek, Sarah Felberbaum, Rocco Papaleo). Due vite per caso andrebbe dunque sostenuto per il coraggio con cui il regista si imbarca in territori inediti e inconsueti per il nostro cinema, ed è forse proprio per questo motivo che ha colpito i selezionatori della Berlinale.