Recensione The Road (2009)

Adattare un romanzo per il grande schermo, considerando la profonda differenza tra i due media, significa necessariamente tradire il materiale di partenza, ma in questo caso la scelta di John Hillcoat di mantenersi aderente al testo originario risulta efficace, oltre che comprensibile.

Apocalisse presente

"Chi fa brutti sogni nutre ancora la capacità di ribellarsi, chi fa solo bei sogni oramai si è arreso". Una madre si rifiuta di mettere al mondo il proprio bambino in un mondo dilaniato dal senso di morte, mentre un padre si carica sulle spalle il peso della famiglia inseguendo il miraggio di un utopico miglioramento delle condizioni di vita. Il cataclisma oggetto del lucido romanzo di Cormac McCarthy portato sullo schermo dall'australiano John Hillcoat non si riveste delle sfumature filosofico-religiose de I figli degli uomini, ma affoga nello stesso sangue, sporcizia e grigiore in cui è immersa l'America post-apocalittica sconquassata da terremoti e paralizzata nella morsa del gelo. "Homo homini lupus" teorizzava Thomas Hobbes.
Il doppio binario su cui si muove il nucleo narrativo di The Road coniuga l'avvicinamente progressivo dei due protagonisti, un padre e un figlio, movimento che talvolta subisce brevi, ma pesanti battute d'arresto (gli incontri con gli altri derelitti in cammino ai quali il figlio è sempre prodigo nell'offrire aiuto, mentre il padre protettivo vorrebbe allontanare al più presto) con lo scontro tra questo nucleo familiare mutilato e i "cattivi" che popolano il mondo distrutto. La mente infantile, pronta a semplificare le complesse sovrastrutture della realtà e a ridurle all'essenziale, divide gli uomini in buoni e, appunto, cattivi. Quella adulta del padre (uno straordinario Viggo Mortensen, ma questa non è una sorpresa) ha allenato i propri sensi a diffidare di chiunque per proteggere il figlio istruendolo a sfuggire con ogni mezzo ai nemici, anche a costo di togliersi la vita per sottrarsi alla violenza che imperversa, violenza mostrata solo a sprazzi, ma evocata costantemente nel corso del film dalle tracce del passaggio dei cattivi.

Adattare un romanzo per il grande schermo, considerando la profonda differenza tra i due media, significa necessariamente tradire il materiale di partenza, ma in questo caso la scelta di John Hillcoat di mantenersi aderente al testo originario risulta efficace, oltre che comprensibile. La profonda relazione che si crea tra il padre e il figlio in fuga dall'inverno, dal male, e forse anche dai ricordi di un passato sereno, viene sviscerata attraverso una concessione minima al sentimentalismo sostituita per lo più da un'asciutta e minuziosa rappresentazione della quotidianità anomala instauratasi, fatta di piccoli gesti necessari alla sopravvivenza.
Di fronte alla compattezza narrativa e stilistica di McCarthy, John Hillcoat sceglie la via più semplice, ma anche più rigorosa. La sua regia si mette al servizio di storia e personaggi abbandonando guizzi autoriali o concessioni al pathos per assumere una funzione essenzialmente descrittiva. Il focus rappresentato dalla sofferta relazione padre-figlio viene incorniciato da piani d'ambientazione cupamente suggestivi che fotografano la desolazione dello scenario possibile dipinto da The Road e dal giganteggiare degli attori, tutti assolutamente in parte, dalla disperata Charlize Theron al saggio Robert Duvall. Unica concessione volta a movimentare la narrazione: gli inserti onirici che conservano la dolcezza del ricordo e l'inquietudine del passato recente. La strada verso sud passa attraverso la desolazione e la ferinità dell'umano, troppo umano. Pessimista McCarthy. O no?

Movieplayer.it

4.0/5