Nel labirinto multietnico italiano di Claudio Giovannesi

Dopo l'esordio con il convincente 'La casa sulle nuvole', il giovane regista romano ci presenta un'opera che accende l'attenzione sulla realtà multirazziale adolescenziale e sul problema della distribuzione italiana di un genere che meriterebbe maggiore attenzione.

Presentato stamattina a Roma Fratelli d'Italia, il film documentario dell'emergente Claudio Giovannesi, che rientra in un progetto didattico avviato nel 2006 presso l'istituto Paolo Toscanelli di Ostia, una delle scuole secondarie laziali con maggior numero di iscritti immigrati di seconda generazione (tra il 15 e il 20%). Il film, nato dalla costola di Welcome Bucarest, documentario che ha riscosso successo negli anni, e che viene riportato nel primo episodio, ci propone una fotografia realistica, attenta e drammatica, degli adolescenti italiani, affidando alla sensibilità dello spettatore uno sguardo critico su realtà difficili come quelle dei suoi protagonisti. Attraverso tre episodi a loro dedicati, Alin Delbaci, Masha Carbonetti e Nader Sarhan, studenti che provengono da famiglie rumene, bielorusse ed egiziane residenti da anni in Italia, Giovannesi ci porta per mano nel cupo reticolo delle problematiche legate all'integrazione multiculturale, intesa, piuttosto che come il solito trito e ritrito problema dell'immigrazione, come incontro e confronto tra tradizioni, religioni e mentalità differenti sul fragile scenario dell'ambiente scolastico pubblico. Presentato alla scorsa edizione del Festival di Roma nella sezione L'Altro Cinema - Extra, dove aveva meritato una menzione speciale insieme a Vegas di Gunnar Vikene e a Severe clear di Kristian Fraga, l'appassionato Fratelli d'Italia è distribuito da Cinecittà Luce in sole cinque copie, secondo una strategia di mercato che s'ispira all'esempio de La bocca del lupo di Pietro Marcello: una distribuzione che non si limita unicamente alle sale, ma prova a raggiungere il pubblico tramite circuiti alternativi come i cineforum e i festival. Accanto al giovane regista, sono presenti in sala il produttore Giorgio Valente, che ci ha raccontato come l'attuale crisi della nostra nazione stia influendo in maniera negativa anche sulla realizzazione, sulla distribuzione e sulla fruizione di opere filmiche dotate di un valore culturale interessante, e il consigliere regionale Giulia Rodano, che ci ha parlato della possibilità delle attuali politiche pubbliche di sostenere la cinematografia esordiente. Tra tematiche come il melting pot e il sostegno statale, come risoluzione alla precarietà in cui si ritrova oggi l'Italia, s'infilano i discorsi più leggeri dei due protagonisti Masha Carbonetti e Nader Sarhan, che, con la spensieratezza tipica dell'età che il film descrive come una sorprendente e trasparente decalcomania, ci descrivono un'esperienza ben lontana dalla fiction e dai reality televisivi e ci rivelano cos'è cambiato nelle loro vite dopo essere stati immortalati dalla telecamere del promettente regista romano.

Consigliere Rodano ci spiega l'interesse della Regione Lazio in quest'opera?

Giulia Rodano: Gli interessi della Regione Lazio sono molteplici perché siamo di fronte al prodotto di un progetto realizzato insieme a cinque istituti del Lazio per costruire la consapevolezza del linguaggio cinematografico nei giovani. Via via che andava avanti sono emerse le storie, esperienze diverse. Siamo inoltre sempre motivati quando c'è da offrire una possibilità ai giovani registi perché possano provare a lavorare. In questo momento per esempio abbiamo indetto un bando che consente la possibilità di realizzare opere prime, seconde o di registi giovani.

Come avete scelto l'argomento del progetto?
Giulia Rodano: Il tema è venuto dopo perché è stata la realtà che ce lo ha indicato e quest'aspetto rende il progetto ancora più interessante. E' sorprendente quanto sia vero e quanto sia interessante il concetto della molteplicità della cultura e dei suoi apporti per noi italiani. I protagonisti del film sono cittadini italiani ed è quello che dovrebbero essere anche nella realtà... Pensiamo che nell'istituto Toscanelli almeno il 15% dei ragazzi è di seconda generazione o di provenienza da altri Paesi. E' giusto vedere queste tematiche al cinema e non solo trattate dalla cronaca perché il cinema pone la comunicazione come aspetto cruciale. Io credo che questo sia un tema che dovrebbe essere trattato anche sul piano politico.

Claudio, cosa l'ha spinta a imbattersi in questo progetto e che tipo di dibattito crede produrrà nel pubblico?
Claudio Giovannesi: Fratelli d'Italia ha una narrazione che vuole assomigliare a quella di un film; è nato come un episodio di 40 minuti, che è stato poi rimontato su suggerimento di Giorgio Valente che conosceva la realtà di un istituto, dove fortunatamente si respira un'atmosfera diversa da quelle del centro. Andando lì ho conosciuto uno per uno tutti gli studenti di origine non italiana, anche se non volevo fare il solito film sugli immigrati ma sugli adolescenti in quei luoghi. Nader è egiziano, ma parla italiano meglio di me ed è stato bellissimo sentirlo mischiare italiano ed egiziano.

Ci parla dell'episodio a cui si riferisce?
Claudio Giovannesi: L'episodio si chiama Welcome Bucarest ed è un documentario che ha avuto grossa diffusione, soprattutto in Francia, dove sono sempre molto attenti mentre in Italia sono pochissimi i documentari che vanno in sala! Ho molti amici in Francia che invece vivono realizzando documentari... Curzio Maltese era presente a un festival a cui lo presentavo e mi fece capire che non era intriso della solita retorica del buonismo né della tolleranza zero: è dalla sua considerazione che siamo andati avanti.

Come mai la scelta di un film a episodi?
Claudio Giovannesi: Avevo visto Terra di mezzo di Matteo Garrone, un film in tre episodi e ho deciso anch'io di farne uno con la stessa struttura. Ho avuto il sostegno personale del produttore e della regione e così sono riuscito a realizzarlo.

Qual è stato l'aspetto che più l'ha colpita di quest'esperienza nella scuola?
Claudio Giovannesi: La parte più bella del lavoro è stato il contatto con i ragazzi, entrare a casa loro con le telecamere, microfonare i personaggi e far capire loro che stavo girando un documentario, e che il documentario è qualcosa di diverso da quello di trasmissioni come Quark. Dovevo fargli capire di non guardare in macchina, a differenza di quello che si fa in un reality.

Nel film i protagonisti non recitano, ma sono se stessi. Che tipo di difficoltà ha avuto nel dirigerli?

Claudio Giovannesi: Nel caso di Alin volevamo riprendere i suoi conflitti con la classe e la professoressa quindi abbiamo deciso di frequentare per alcune settimane insieme a loro le lezioni per non essere considerati elementi estranei. Finito questo processo di "assimilazione", abbiamo iniziato a riprendere quello che accadeva. Ma non abbiamo fatto una ricostruzione: loro sono stati generosi nel permetterci di vederli nella loro quotidianità e io ho cercato di mostrare le cose che sarebbero accadute anche se io non ci fossi stato. Per esempio quando nel film Macha piange mentre è a telefono con suo fratello, lei non pensa che è davanti alla telecamera. Abbiamo ripreso molte ore a scuola, ma nel montaggio abbiamo privilegiato momenti significativi.

Macha e Nader come avete fatto a mantenere la vostra naturalezza davanti alle telecamere?
Nader Sarhan: Dopo un paio di giorni mi ci sono abituato, facevo le cose che facevo tutti i giorni. Claudio non poteva riprendere tutta la nostra vita perché sarebbe stato impossibile, ma ha ripreso i momenti più importanti, parti vere di me. Ci sono altre cose di noi che non sono state riprese, ma quelle più importanti sono in quei 90 minuti.
Macha Carbonetti: Inizialmente è stato difficile per me essere seguita dalle telecamere. Quando ho scoperto che mio fratello mi aveva cercato, Claudio ha deciso subito di fare le riprese. Io pensavo a mio fratello, che sentivo per la prima volta e per me era un'emozione forte e non avevo il tempo di pensare che lì c'erano le telecamere.

Cosa vi ha spinto a fidarvi del regista per raccontare la vostra storia personale?
Macha Carbonetti: Ho conosciuto Claudio due anni fa e lui mi ha chiesto di raccontare la mia storia, che è simile a quella di molti altri. Mi ha chiesto di far capire le difficoltà dei ragazzi adottati, complicate ma nello stesso tempo normali perché comuni.
Nader Sarhan: Io non avevo in testa tutte le cose di cui ha parlato Macha, ma volevo solo partecipare, volevo recitare. Ora però sono contento di aver fatto capire alla gente i miei problemi, che non sono di cittadinanza né di appartenenza: abbiamo la nostra religione, i nostri problemi con i nostri genitori...

Cos'ha cambiato quest'esperienza nel rapporto con i tuoi genitori?
Nader Sarhan: Niente, almeno finora. Mia madre ha fatto un passo avanti. Con mio padre, che lavora per strada e ha a che fare con gli italiani, non ho mai avuto grossi problemi. Si sono un po' arresi all'idea che io non voglio passare i miei giorni solo a studiare.

E con la scuola?
Nader Sarhan: Ho lasciato la scuola di Ostia per una di Roma perché mi conveniva, ma poi sono stato bocciato. Quest'anno le cose vanno meglio.

Macha tu invece sei riuscita a incontrare tuo fratello?

Macha Carbonetti: Con l'aiuto del produttore sono riuscita a far venire mio fratello in Italia, mi sono ritrovata con una nuova famiglia e adesso programmo un viaggio in Bielorussia.

Dopo quest'esperienza sul set, pensate di continuare nel mondo della recitazione?
Nader Sarhan: Sì, io vorrei entrare nel mondo dello spettacolo.
Macha Carbonetti: Se capita... Ma ho altri progetti...

Sareste andati a vedere un film così al cinema?
Nader Sarhan: Sono sincero: Non andrei a vederlo perché non m'interesserebbe. A me piace vedere film horror, ma non ci vado molto spesso al cinema. Però voglio fare l'attore perché ce l'ho nel sangue!
Macha Carbonetti: Il film tratta argomenti che m'interessano, quindi sì.

Claudio ci sono scene che non sembrano estratte dalla realtà come quella in cui il papà di Nader incrocia lo sguardo della fidanzata di suo figlio allo stadio. Ce ne parla?
Claudio Giovannesi: Mi sono limitato a far accadere le cose così come accadevano senza snaturarle. Nel caso dell'episodio della partita, sapevamo di quell'incontro e abbiamo posizionato le telecamere fisse sul papà di Nader e sulla fidanzata Eleonora. Nel montaggio poi abbiamo privilegiato l'essenzialità. Non ci sono state mai forzature. Ho cercato anzi dei presupposti come un possibile incontro tra Eleonora e la madre di Nader, però poi non si sono realizzati.

Come avete affrontato un episodio come quello in cui Nader e gli amici fanno discorsi razzisti?
Claudio Giovannesi: Quella è una delle scene che più temevamo, eravamo indecisi se tagliarla o meno, poi abbiamo deciso d'inserirla. Nader mi raccontava che aveva un amico di destra e che a sedici anni aveva già un orientamento preciso. Sinceramente io non ho paura del politicamente scorretto, anzi mi piace e ho voluto ascoltarlo con amore di giudizio. Dopo ho parlato con Nader per avere spiegazioni e lui ha chiarito che si riferiva al comportamento della Palestina e non intendeva gli ebrei. E' stato straordinario vedere abbracciarsi e parlare di conflitti razziali Nader e questo amico perché anche un incontro così fa parte di un discorso multiculturale.

Il problema dell'integrazione è una responsabilità dei genitori immigrati?

Claudio Giovannesi: C'è sempre una cosa che va al di là dello spazio e del tempo ed è il conflitto generazionale tra padri e figli. La differenza tra Nader e i suoi genitori per esempio è che loro sono immigrati di prima generazione, lui invece è nato e cresciuto qui. Credo che la questione da calibrare sia tra le mura domestiche.

Signor Valente cosa l'ha spinta a investire in questo documentario?
Giorgio Valente: Si tratta di un progetto a basso budget inoltre abbiamo collaborato con Il labirinto, nato come cineclub trent'anni fa ed esistito come tale fino al 2007. Non potendoci più dedicare al cinema d'essai ci siamo dati questa missione, specialmente rivolgendoci al pubblico giovane. Abbiamo cercato di capire cosa succedeva nella mente dei ragazzi rispetto ai codici del linguaggio visivo.

Quanto ha pesato su questa scelta il preciso momento storico che stiamo vivendo?
Giorgio Valente: Il contatto con la specificità di Ostia, che, come Guidonia e altre realtà, è un ambiente incentrato sulla comunità, in particolare di rumeni, ci ha impressionato molto. Quando è partito il progetto era un momento in cui in Italia cresceva l'attenzione verso questo tema. Siamo partiti dal primo episodio, sostenuti da Lazio Film Commission, e poi abbiamo deciso di sviluppare tre storie, sebbene ce ne fossero anche altre degne di attenzione. Siamo entrati e siamo stati accettati da loro e dalle loro famiglie in modo veramente amichevole. Abbiamo cercato di capire cosa fa la scuola. Ci siamo trovati di fronte a un materiale vivente di estremo interesse.

Perché non avete cercato di utilizzare più sale per tenere il film in sala? Luciano Sovena, Amministratore Delegato di Cinecittà Luce: In realtà avremo il proseguimento nelle sale. Tutti i nostri film prima venivano proiettati a Il labirinto... Purtroppo sappiamo che alcuni film non superano neanche il week end e quindi poi vengono eliminati dalle sale. Basta pensare a film come Avatar, che restano mesi in programmazione e a film come Oceani 3D dove c'è bisogno del traino di Aldo, Giovanni e Giacomo per interessare il pubblico. C'è però il piccolo mercato dei cineclub, pieni di gente, su cui puntiamo.
Giulia Rodano: La possibilità di fare, di vedere il film e di farlo proseguire perché se ne parli e si faccia conoscere è un punto determinante. Credo che ci voglia un sostegno pubblico e sostengo che potremmo preferire un sostegno alla distribuzione piuttosto che alla produzione. Credo poi che sia necessario mirare a circuiti alternativi come i festival e che ci voglia anche una politica pubblica che abitui gli spettatori a vedere i film oltre la prima settimana di uscita in sala.

Dallo scorso giugno sono stati realizzati in Italia una ventina di documentari con distribuzioni parcellari, il pubblico però è sempre più attento a questo genere. La sopravvivenza di prodotti come questo è una missione sempre più problematica, com'è possibile che non si tenga conto delle esigenze del pubblico? Luciano Sovena: Bisognerebbe chiedersi perché film del genere non trovino un passaggio neanche in televisione. Purtroppo è sempre un problema economico.
Giulia Rodano: Credo che sia anche un problema di investimenti nella realizzazione dei film da parte del potere pubblico. E' sempre più urgente la capacità da parte delle strutture pubbliche di condizionare il mercato.