Recensione Il discorso del re (2010)

Un film che ha i suoi meriti principali in un'attenta ricostruzione storico/sociologica del periodo e dell'ambiente nobiliare inglese, e in due interpreti che fanno a gara di bravura, grazie anche a un soggetto che tende naturalmente a metterne in risalto le doti.

Una nazione che ritrova la voce

Il balbuziente Bertie tutto avrebbe voluto, tranne che essere re. Come dargli torto? Sofferente fin dall'infanzia per questo difetto apparentemente insormontabile, frequentemente costretto a confrontarsi con imbarazzanti occasioni pubbliche a causa del suo sangue reale, il secondogenito di Re Giorgio V vorrebbe solo chiudersi nel silenzio, far dimenticare al mondo che anche lui ha una voce, magari dimenticarsene lui stesso. Disgraziatamente, però, arriva un momento in cui della sua voce c'è bisogno. Un bisogno disperato, visto che il suo viziato e volubile fratello, appena subentrato al trono britannico al defunto padre, ha infine abdicato, dichiarando pubblicamente la sua incapacità di occuparsi degli affari della nazione. Il re dalla voce intermittente dovrà quindi chiedere l'aiuto del più eccentrico dei suoi sudditi, il logopedista Lionel Logue, perché con i suoi trattamenti lo aiuti a sviluppare quella che, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, si rivelerà essere la capacità più importante per il rappresentante della corona: quella di unire i suoi sudditi con la forza dell'eloquio.


Questo Il discorso del re, probabile protagonista della prossima Notte degli Oscar dopo il meritato Golden Globe tributato all'interprete principale Colin Firth, ha il principale merito di restituire un quadro storico puntuale e preciso di un periodo in cui la stessa istituzione monarchica si era modificata radicalmente. Alla vigilia della guerra, nella società britannica erano stati infatti proprio i mass media, e in particolare la radio, a dare la spallata definitiva a un'idea sacrale di sovranità, come entità intangibile e separata dal corpo dei sudditi, non tenuta ad entrare a diretto contatto con essi. La radio svela la realtà umana, concreta e contingente del potere del re, lo costringe a rivelarsi per quello che è, e ne trasforma profondamente la funzione: da mistica espressione di un potere metatemporale, a simbolo concreto dell'unità nazionale, con il dovere storico di rappresentare un punto di riferimento per la compattezza della nazione. E' molto interessante quindi, nel film di Tom Hooper, l'indagine su questo slittamento di senso nell'idea di sovranità, e la rappresentazione delle sue ricadute nella vita concreta del neomonarca: Bertie/Giorgio VI sembra la persona meno adatta per incarnare il "faro" che guida il suo popolo, e non solo perché balbuziente, ma perché il suo carattere mite e tendente alla solitudine vorrebbe farlo ritirare in un retroscena i cui confini si fanno sempre più angusti. Il microfono radiofonico appare come un mostro, personale babau che perseguita il protagonista, moderno feticcio tecnologico che con la sua concretezza rimanda a quella, temuta, del corpo dello stesso Bertie, e soprattutto del suo odiato difetto.

Se il film presenta quindi dei meriti indiscussi dal punto di vista storico/sociologico, grazie anche a un'attenta ricostruzione d'ambienti e a una regia misurata ed elegante, più debole risulta, invero, l'aspetto psicologico della vicenda. Paradossalmente proprio il rapporto tra il protagonista e il suo terapista (il comunque ottimo Geoffrey Rush), manca dello spessore e dell'approfondimento necessari, finendo per risentire di una certa convenzionalità di descrizione. Nonostante le maiuscole prove d'attori che i due protagonisti offrono, la resa della loro amicizia resta ad un livello superficiale, tanto da inficiare un reale coinvolgimento emotivo; l'inizio burrascoso, la graduale fiducia, la fuga del protagonista e il suo successivo ritorno: tutto è come da copione, ma è un'evoluzione a cui non si riesce a credere fino in fondo. Quello che manca è anche un background realmente approfondito nella storia familiare del neo-re, specie per quanto riguarda i rapporti, che riusciamo solo ad intuire problematici, con il suo capriccioso fratello e con suo padre (interpretati rispettivamente da Guy Pearce e dal veterano Michael Gambon).
Certo, con una schiera di attori di questa portata messi in campo (va ricordata anche la reale consorte interpretata da Helena Bonham Carter) valorizzati da un soggetto che, specie in merito ai due protagonisti, tende naturalmente a metterne in risalto le doti, i limiti di sceneggiatura passano inevitabilmente in secondo piano. La stessa regia raggiunge un buon equilibrio tra le esigenze di ricostruzione storica e i momenti più emotivamente pregnanti della vicenda, non risultando quasi mai inutilmente enfatica: la stessa scena-clou del discorso finale è ben costruita ed efficace. Se quindi Il discorso del re risulta a tratti, paradossalmente, un po' freddo nel suo svolgimento, va comunque dato atto a Tom Hooper di aver saputo amalgamare al meglio un gruppo di ottimi attori, offrendo anche una descrizione d'epoca sfaccettata e credibile.

Movieplayer.it

3.0/5