Dopo aver conquistato l'Osella per la miglior sceneggiatura all'ultima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, l'opera scritta e diretta da Olivier Assayas, Qualcosa nell'aria, arriva nelle nostre sale dal prossimo 17 gennaio grazie a Officine Ubu, che si è impegnata a distribuire un numero rilevante di copie in lingua originale. Per il regista francese, che abbiamo incontrato questa mattina, accompagnato da due degli interpreti del film, Hugo Conzelmann e Carole Combes, si tratta dunque di un piacevole ritorno in Italia, nazione che non ha mai fatto mistero di amare, come dimostra anche l'ottimo italiano sfoggiato in conferenza stampa. Un incontro in cui si è dibattuto a lungo della sua fatica cinematografica, una rilettura personale, con alcuni spunti biografici davvero interessanti, delle azioni dei movimenti studenteschi nati dopo il 1968 (Après Mai, dopo maggio, è il titolo originale del lungometraggio). I protagonisti, infatti, vivono nella Parigi del 1971 e tra lotte politiche e prime relazioni sentimentali, i ragazzi di Assayas (nel cast anche Lola Creton e Clement Métayer) cercano la propria identità in un mondo che aveva disperso quel grande potenziale di idee e di rinnovamento che è stato il 1968. Alcuni si uniscono ai nascenti gruppi terroristici, altri riescono a trovare nell'arte, e nel cinema in particolare, la risposta alle domande esistenziali più pressanti.
Signor Assayas, quello che emerge dal film è la sua volontà di raccontare quel periodo storico così particolare attraverso la lente d'ingrandimento del cinema. Il protagonista Gilles, il suo alter ego, rifiuta con forza un certo modo di fare cinema, rappresentato da quei collettivi che si sono dedicati esclusivamente al documentario. Questa presa di posizione, per così dire, nasconde altro?
Questa è una questione centrale del film e spiegarla in maniera chiara, ma non semplicistica non è facile per me. In primo luogo c'è stato il momento specifico del maggio 1968, anticipato dalla cosiddetta Summer of Love del '67 negli Stati Uniti, due movimenti culturali che hanno rappresentato l'idealismo, la forza del potere collettivo, la bellezza dell'utopia giovanile; era un momento di libertà, se vogliamo possiamo anche definirlo anarchico, ma c'era il reale desiderio di mettere tutto in discussione, anche la politica. Nel periodo successivo, i gruppi militanti hanno iniziato a strutturarsi in piccoli partiti, con ideologie molto rigide. In sostanza, l'energia che nel '68 aveva a che vedere con l'invenzione incantata del mondo e della poesia era diventata il dogmatismo dell'ultrasinistra, che si esplicava, come dico nel film, nel disprezzo della creazione poetica del cinema. E allora si giravano i documentari, pratica di per sé giusta, perché, anche se oggi può sembrare strano, all'epoca nessuno andava a riprendere gli operai in fabbrica. Non c'erano le emittenti televisive, ma solo la TV di Stato che non dava certo spazio a questi argomenti. Tutto questo però era ed è diverso dall'arte cinematografica e dal suo specifico.
Non sono sociologo, ma la domanda me la sono posta, sì. Quando penso a quegli anni posso dire con certezza che la totalità dei giovani era impegnata. E' grazie a questo che la società è cambiata e in virtù di questo aspetto possiamo dire che la rivoluzione in un certo modo è riuscita. Quello che ha fallito successivamente è stata la politica e soprattutto l'arrivo del terrorismo, un fenomeno spaventoso che ha fatto fuggire la maggioranza dalla responsabilità politica. In Francia, ad esempio, la fine di un certo idealismo è coincisa con lo spavento per quanto succedeva in Italia e in Germania e ad un certo punto è sembrato che l'utopia fosse sbagliata e che il mondo sognato non fosse più quello reale.
Ciò implica un grande senso di responsabilità da parte di un regista, poiché a lui spetta il compito di raccontare la realtà in maniera nuova. Come si concilia un discorso di questa importanza con la teoria di uno dei protagonisti del film secondo cui l'arte è solitaria?
E' paradossale, ma il cinema in realtà è meno solitario delle altre arti, come la pittura o la scrittura. Esso è un'arte collettiva. Poi, l'atto creativo è solitario, il regista è solo in mezzo alla confusione, ma utilizza le energie che sono intorno a lui. La ragione per cui sono diventato regista, abbandonando la pittura è proprio questo. La solitudine della pittura, dello studio e l'ossessione dell'immaginazione, anche se erano elementi essenziali alla mia vita, rischiavano di allontanarmi dalla realtà. Io invece avevo bisogno di una connessione col gruppo e con la società e il cinema ha rappresentato proprio questo. Quando ho capito che potevo usare il cinema non solo a livello di introspezione, ma come osservazione ed esplorazione del mondo, sono riuscito ad andare avanti.
Sì, perché mi sono reso conto col passare del tempo che non è mai stato analizzato a dovere un certo machismo dei movimenti radicali, anche se i semi del femminismo sono stati piantati proprio in quel terreno. Nonostante avessero la stessa educazione politica, le donne avevano un ruolo secondario. Sapevo che questo dovesse essere un tema importante, ecco perché ho fatto durare molto la scena in cui i militanti parlano tra di loro e Christine torna a casa dopo aver fatto la spesa, era rappresentativa di quel pensiero.
Come ha lavorato con gli attori del cast?
Per quanto mi riguarda il casting è una parte essenziale del processo creativo del film. Una volta che ho scelto gli attori, lascio che le cose accadono, con libertà e autonomia. Quello che accade tra il personaggio e il protagonista è qualcosa di molto più interessante della mia idea sul personaggio, poi se qualcosa non mi piace, aiuto l'attore a ritrovare il capo. Mi limito a creare un ambiente e a non perdere il filo della verosimiglianza e poi lascio che gli attori reinventino i propri personaggi.
A proposito di verosimiglianza, la colonna sonora, che raccoglie tra l'altro brani di Syd Barrett, Soft Machine e Nick Drake, è stata curata con puntiglio da parte sua...
E' senz'altro l'aspetto più autobiografico del film. Ho scelto tutte le canzoni che ascoltavo, anche quelle che non erano troppo rappresentative dell'epoca, minoritarie, suonate da gruppi sconosciuti.